Lascia qui la tua impronta...

Se dedicherai qualche minuto del tuo tempo per lasciare qui le tue impressioni (max: 5.000 caratteri) sull'esperienza vissuta all'ospedale "Vezo" di Andavadoaka, ti saremo grati. Potranno essere utili a chi è in procinto di partire per il Madagascar o pensa di farlo. Qualsiasi considerazione sarà bene accetta, critiche comprese.

I messaggi offensivi del buongusto e della buona educazione, ovviamente, non saranno pubblicati.

Grazie per il tuo contributo.

Commenti: 131
  • #131

    Maria Chiara Susini (giovedì, 16 gennaio 2020 21:27)

    Son qui che davanti ai miei baobab di legno appesi al muro e finalmente trovo il tempo e l’ispirazione per descrivere cosa è stata per me l’esperienza all’ospedale Vezo.
    Un'altra dimensione fra due pezzi di vita, un ponte di collegamento e un distacco totale.
    Scoprire un nuovo mondo, dove la felicità e i sorrisi hanno espressioni simili alle nostre ma radici diverse
    Il popolo Vezo e gli altri che ho incontrato in Madagascar mi hanno fatto vedere quanto ci possa essere di diverso e allo stesso tempo di simile a noi, al mondo.
    Dal punto di vista professionale è stato un’esperienza quanto mai preziosa, per il rapporto con i pazienti, con gli interpreti, per lo scambio con i colleghi, inizialmente solo miei coetanei, poi più anziani e saggi, per la sfida a cui si è chiamati ogni giorno, l’invito alla riflessione, al ragionamento, a misurare le proprie potenzialità, a farsi bastare le risorse limitate, a saper chiedere aiuto e a portar avanti le proprie idee ed intuizioni.
    I punti su cui secondo me è necessario lavorare per migliorarsi sono la formazione, sarebbe bello e molto utile riuscire ad organizzare più di un incontro per formare i volontari in partenza. Per i volontari che partono per tempi lunghi si potrebbe pensare ad una formazione mirata a seconda delle carenze di personale nel periodo previsto di permanenza.
    Dopo essere rientrata ed aver cominciato ad approfondire il mondo delle malattie infettive mi sono accorta che con qualche nozione in più sarei forse riuscita a gestire meglio molti casi incontrati all’ospedale.
    Per l’organizzazione fra volontari, il mio periodo è stato fortunato per l’intesa che c’era fra i collaboratori all’ospedale, secondo me sarebbe necessario un incontro iniziale in ospedale più approfondito per spiegare bene ai nuovi arrivati dove si trovano tutte le cose, soprattutto quelle per le emergenze, io ho scoperto della presenza del defribrillatore il giorno della partenza.
    Ecco le mie impressioni e le mie proposte per l’ospedale Vezo,
    mi piacerebbe poter contribuire ancora per portare avanti questo splendido progetto, aspetto ancora qualche mese per ambientarmi in questa nuova vita bolognese.
    Un sincero ringraziamento a tutti voi,
    Maria Chiara Susini

  • #130

    Paolo Vacchina (lunedì, 09 dicembre 2019 16:18)

    Mi accodo alla risposta di Cristina, intanto ringraziando l'associazione per questa bellissima opportunita'.
    Per quanto avessi gia' girato l'Africa con le Nazioni Unite il lavoro da volontario da soddisfazioni in piu'!

    Per i miei commenti e relazioni tecniche ne ho gia' ampiamente discusso con Federico.

    Per quanto riguarda considerazioni sul lavoro in ospedale e la vita nella casa dei gechi posso aggiungere le seguenti osservazioni:
    1. Nella nostra missione e' mancato il coordinamento e il team building dei volontari: servirebbe un manager con qualche esperienza nel gestire le problematiche di gruppo e nel motivare i volontari. L'esperimento che farete inviando dei coordinatori civili nella casa potrebbe funzionare bene se viene fatta una preparazione a monte.
    2. Girando per l'ospedale ho trovato abbastanza sporco, cosa che sicuramente ha influito sulla rottura degli ecografi: quando ho estratto le schede per cambiarle erano immerse in una polvere impenetrabile. Un suggerimento e' quello di utilizzare degli aspirapolveri, anche di quelli piccoli da auto nel caso degli apparati medici. Ovviamente aspirapolveri senza buste da cambiare, altrimenti mancherebbero poi i ricambi.
    Anche qui serve una gestione piu' precisa del personale di pulizia, che se istruito in modo opportuno fa bene il lavoro, come ha dimostrato Cristina quando ha fatto dare una pulita a fondo alla sala parto.
    Grazie ancora e a presto!
    Paolo

  • #129

    Giulia (venerdì, 25 ottobre 2019 11:18)

    Sono passati 8 mesi dal mio rientro in Italia.
    Penso sia stata l'esperienza più bella che abbia mai fatto. Sono partita poco dopo essermi laureata, ho imparato moltissime cose sia in ambito pratico che UMANO.
    Gli abitanti lasciano un'impronta indelebile, poiché diversi dalle persone abituata ad incontrare qua in Italia: sempre sorridenti e grati alla vita.
    è stata un'esperienza indimenticabile che mi ha cambiata molto (cosa che ho constatato solo dopo essere tornata in Italia). Grazie all'associazione che permette di fare questa bellissima e gratificante esperienza!!

    Giulia
    Infermiera

  • #128

    Luisa Squintani (martedì, 15 ottobre 2019 21:35)

    Sono pronta a raccontarvi della mia esperienza all'ospedale di Vezo, esperienza, fra alti e bassi, sicuramente positiva, che aveva bisogno di essere valutata a distanza prima di essere raccontata.
    I primi giorni in laboratorio sono stati sconcertanti, non capivo che cosa dovevo fare, l'unico strumento parzialmente funzionante era il contaglobuli che non sapevo utilizzare e che Michele, nell'immediato, non aveva tempo di trasmettermi quello che lui sapeva, per cui mi sono messa a leggere parassitologici con i volontari che entravano e facevano un morfologico, altri uno stick urine e io che non mi rendevo conto dei dati che uscivano dal laboratorio e degli esami che venivano fatti. Non avendo confidenza non potevo intervenire anche perché io il coulter non lo sapevo utilizzare e poi se quella era l'organizzazione, una volta partita, sarebbe tornato tutto come prima.
    Nel giro di qualche giorno ho cominciato a fare uno schema invitando tutti quelli che portavano esami a scrivere nome ed identificativo della persona e esami richiesti, in questo modo ho cominciato a fare ordine nella mia testa che non è più tanto elastica.
    Un momento sicuramente positivo è stato quando ho cominciato a colorare con lo Ziehl Neelsen i vetrini di espettorato, potendo in questo modo fare diagnosi di tbc, visto che gli apparecchi radiologici erano fuori uso.
    Intanto Vito mi ha comunicato che Vivienne aveva accettato di dedicarsi prevalentemente al laboratorio. A questo punto, anche se un po' tardi, ho cominciato ad insegnarle qualcosa come eseguire un morfologico, colorare e leggere i Bk, colorare i vetrini dei tamponi vaginali con il Gram e poi leggerli, fare un Giemsa, e poi cercare di leggere una formula, eseguire test rapidi x epatite e sifilide, fare un ematocrito con la micro centrifuga e scrivere su una tabella tutto quello che veniva fatto per avere un'idea della quantità e del tipo di esami richiesti. Tutto questo è stato fatto molto frettolosamente negli ultimi giorni, mi sarebbe piaciuto insegnarle quel poco che so, in modo più approfondito, ma non ne ho avuto il tempo.
    Quindi, alla fine, non so se ho fatto qualcosa per il laboratorio, io però mi sono fatta un'idea di come si lavora e di come si potrebbe lavorare, per cui, se dovessi rifare questa esperienza, arriverei sicuramente più preparata.
    Lasciando perdere il lavoro, ho avuto la fortuna di trovarmi in un gruppo fantastico e questo è fondamentale perché le ore passate insieme sono veramente tante. Basta poco per turbare l'equilibrio, la serenità e ci vuole impegno da parte di tutti e direi che questo gruppo, formato prevalentemente da giovani, ne era consapevole e si è sempre adoperato perché le cose potessero funzionare nel migliore dei modi.
    Come ultima cosa devo dire che io, e penso sia un fatto soggettivo, ho sofferto un po' l'isolamento. Andavadoaka è meravigliosa, ma l'idea di non poter "scappare" mi creava un senso di claustrofobia. Magari per mesi non mi muovo da San Lazzaro, ma so che volendo potrei raggiungere facilmente qualunque posto.
    Ecco questa è stata la mia esperienza, esperienza sicuramente positiva e per questo ringrazio l'Anna per avermi coinvolta, voi per avermi dato la possibilità di farla e Antonio Marchionne per avermi sopportato nei momenti di maggior sconforto lavorativo. Grazie grazie grazie con affetto
    Luisa

  • #127

    Mattia Varvaro (martedì, 15 ottobre 2019 21:30)

    RELAZIONE DI FINE MISSIONE HOPITALY VEZO MARZO-MAGGIO 2019
    L’idea di “provare” un’esperienza assistenziale come quella vissuta con Amici di Ampasilava è sorta in me molti anni prima del 2019. Senza soffermarmi troppo sulle vicissitudini contestualizzanti il percorso di cura che si offre ad Andavadoaka posso sicuramente asserire di aver trovato un’equipe multi disciplinare variegata e variopinta non solo dal punto di vista inter-continentale ma anche inter-regionale in riferimento alle regioni di provenienza dei volontari. Il rapporto con la popolazione autoctona è stato per me ricco, pieno di significato e di voglia di aiutare-essere aiutati da queste popolazioni che pur così povere nei mezzi sono spesso molto più ricche di sentimenti e di emozioni di quanto non si possa trovare nei corrispettivi in madrepatria dove certamente il paragone interculturale risente di numerosi fattori interni-esterni al mondo delle persone interessate. Un aspetto di cui ho risentito negativamente è stato il rapporto con alcune forti personalità del gruppo di aiuto, molto esperte lessicalmente e teoricamente ma che, almeno apparentemente si sono dimostrate molto restie ad un confronto nel pratico e nel fare piuttosto che nel parlare; parlo di chi, forte magari di un master conseguito in italia e con molta esperienza sui libri, dimostra effettivamente più voglia di management che di assistenza vera e propria. Con le restanti personalità medico-infermieristiche e di mediazione le mie sensazioni sono state delle migliori come spero vivamente di aver suscitato non solo nei pazienti che ho trattato ma anche nei colleghi specialmente locali medesimi sentimenti. L’Hopitaly Vezo è certamente uno splendido esempio di quello che dovrebbe essere una sanità di qualità ispirata alle migliori evidenze scientifiche e umanamente empatica; spero da questo punto di vista che il difficile equilibrio fra i due aspetti dell’assistenza non vengano mai trascurati a favore dell’uno piuttosto che dell’altro. Ugualmente voglio augurarmi che il “motore” rigenerante in italia di questa realtà africana possa continuare a generare continuamente risorse strumentali ed umane in un perfetto connubio tra feedback dei volontari stabilitisi in loco, di coloro con maggiori esperienza ed espertise quindi anche di quelli che si approcciano al mondo sanitario malgascio per la prima volta a vario titolo. Ringrazio sentitamente la popolazione Vezo, l’Hopitaly e la Onlus che lo sostiene, quindi Asuits, mia azienda inviante che ha fattivamente reso possibile questo sogno chiamato Missione.
    Trieste, 21/06/19 Mattia Varvaro

  • #126

    cristina crespi (venerdì, 13 settembre 2019 16:32)

    cari amici di Ampasilava, grazie! E' per merito dell'associazione che ho potuto realizzare un desiderio che avevo da tempo: esercitare la professione del medico in Africa. L'ospedale Vezo in cui ho lavorato dal 19 luglio al 31 agosto fornisce un servizio formidabile alle popolazioni locali, affrancandole dal dover usufruire di servizi sanitari a pagamento (! c'è davvero da chiedersi come e con quali sacrifici quelle persone possano spendere danaro seppure per un bene primario quale la salute). L'assistenza sanitaria è di ottima qualità, tenendo conto del contesto naturalmente. Detto questo, non posso evitare di far presente all'organizzazione alcuni aspetti sicuramente migliorabili con il tempo, alcuni dipendenti da possibilità economiche ed altri "a costo zero" ma comunque a mio parere altrettanto importanti per il ben-essere dei Volontari. Le criticità più evidenti, a mio parere, sono la mancanza di una emoteca e della presenza continuativa di un'ostetrica e di un chirurgo generale in loco. Attivare un percorso mamma-bambino è bellissimo ma occorre offrire alle gravide la possibilità di usufruire delle prestazioni di personale qualificato per assistere un parto "difficile" (gemellare, malposizione fetale, emorragia post-partum etc) e per supportare un neonato con problemi (sottopeso ad esempio). In queste situazioni la professionalità e specificità degli operatori e la tecnologia (minima per carità!) ad hoc sono fondamentali, da esse può dipendere la vita della donna e di suo figlio; non si può delegare questo ad una casualità (è andata bene perchè c'era il chirurgo... e quando non c'è?). E' una grande gioia veder nascere un bambino, se va tutto bene, ma se ci sono problemi si prova una enorme frustrazione e tristezza. Ho sentito anche la mancanza della possibilità di eseguire alcuni basilari esami di laboratorio ematici che, soprattutto quando c'è stato bisogno di ricoverare i pazienti e sottoporli a terapie ev ,diventano indispensabili per l'agire in sicurezza. A Vezo, nel periodo in cui io sono andata, la presenza di Michele e di Ninfa ha assicurato la continuità per l'organizzazione del lavoro infermieristico e della Farmacia. Ninfa è una bravissima infermiera e ne ho potuto apprezzare la professionalità anche in sala operatoria, Michele non è solo un dispensatore di farmaci ma un vero conoscitore di malattie locali; ad entrambi io, neofita dell'Africa, ho chiesto tanti consigli e ho avuto utili risposte. Il loro lavoro è difficile perchè non solo si devono occupare degli aspetti organizzativi e professionali ma devono anche confrontarsi con le esigenze del gruppo dei Volontari che sono diversi tra loro per aspettative, carenze, capacità, diversità generazionale e che cambiano continuamente. A Vezo si pratica una situazione teoricamente bellissima e cioè giovani e vecchi lavorano insieme con l'unico obbligo del rispetto sia umano sia professionale. In pratica ho visto nella quotidianità la tendenza del gruppo dei "giovani" ad isolarsi e creare un gruppo a sè stante, refrattario soprattutto sul piano umano ad interagire con i più anzianotti. Tale situazione si è protratta per circa dieci giorni durante i quali ho vissuto la permanenza alla Corte con un certo disagio. Peccato! personalmente mi ritengo una persona aperta ed in grado di interagire con chiunque, giovane o vecchio che sia, basta che mi rispetti e che abbia qualcosa di interessante da dirmi. Alcuni poi sono stati redarguiti in malo modo pubblicamente per comportamenti discutibili ma non così pesantemente censurabili. Io credo fermamente che il benessere degli operatori abbia ricadute FONDAMENTALI sulla qualità dell'assistenza offerta. Un gruppo coeso che condivide obiettivi e modalità di relazione lavora molto meglio del gruppo con un "capo" e sottoposti. Chi gestisce il gruppo deve quindi non solo attenersi alle più comuni regole di educazione ma soprattutto sapere integrare le persone, far loro condividere gli obiettivi, favorire le occasioni di scambio umano e professionale, fare emergere le peculiarità di ognuno all'interno del gruppo senza sminuire gli altri, osservare il gruppo e capire quali sono i momenti difficili e la necessità di una maggiore condivisione.... Non è facile certamente ma è molto importante tanto quanto fornire l'ospedale di un emoteca e di un chirurgo. Detto questo ancora un grazie a tutti quelli che lavorano perchè l'Ospedale di Vezo continui a vivere qui in Italia e là in Madagascar. In bocca al lupo ai prossimi Volontari!

  • #125

    Simona Maniscalco (martedì, 16 luglio 2019)

    Un grazie a te Mary, ad Elena e a tutta l’associazione che mi avete dato l’opportunità di fare questa esperienza.
    Devo dirti che sapendo di partire “sola”(senza nessuna persona conosciuta),le mie paure erano tante.
    Il viaggio è stato lungo,ma avevo tanta voglia di vedere,scoprire e conoscere quella realtà che molti colleghi mi avevano raccontato.
    L’impatto è stato forte....non vi nascondo che la prima settimana sono andata in crisi!Non mi sentivo adeguata alla situazione...non sapere come muovermi,la lingua (fortuna che c’erano i mediatori),la gente locale ecc...ho pianto! Grazie al gruppo di volontari che ho trovato,ho superato tutto ! Spirito di gruppo,questo ho trovato!
    Ho pianto anche l’ultimo giorno che ho trascorso li...ho lasciato una realtà che mi è rimasta nel cuore.
    L’unica cosa che posso dire che un po’ di Africa farebbe bene a tutti!!
    Grazie Simona

  • #124

    Roberto Verzano (venerdì, 31 maggio 2019 00:37)

    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    (I parte)
    Solo quando il Boeing 777 dell’Airfrance impatta il suolo con le ruote, mi rendo conto di essere arrivato in Africa. Di notte, il continente nero non offre luci per orientare il passeggero sulla vicinanza dell’aeroporto. Non ti da il tempo di prepararti all’atterraggio. Sai che hai iniziato la discesa per l’aeroporto ma solo il pilota può sapere quanto è prossimo l’atterraggio. Il passeggero non ha riferimenti guardando dal finestrino. Non è come da noi, dove le luci, le case e gli edifici, via via si fanno più vicini e sai che stai per toccare la pista. Niente di tutto questo, il passaggio è brutale, immediato. Non è come da noi. Questa frase la ripeterò spesso durante i miei giorni all’ospedale Vezo. Sono in Africa. In Madagascar per l’esattezza, ad Antananarivo. Dodici ore prima ero in Europa, con le luci, i suoni, il frastuono (o il fastidio mi viene da dire adesso), della civiltà. Sono immerso in una dimensione diversa. Destinazione finale: ospedale Vezo ad Andavadoaka. Mai stato in Madagascar, mai stato in Africa. Mai stato in missione prima. Sono contento, concentrato e pronto per il lavoro che mi aspetta. I Colleghi che compongono il team sembrano in gamba, simpatici e per di più non tradiscono particolari emozioni. Tra uno sbadiglio e l’altro, mentre stirano i muscoli intorpiditi dal lungo viaggio, mi confermano la loro esperienza sul campo, cercano di spiegarmi come funzionano le cose in ospedale. Mi anticipano le problematiche tecniche e le limitazioni che incontreremo durante il nostro lavoro, la mancanza di molti dispositivi medici, la scarsezza delle risorse dell’ospedale che sopravvive con pochi mezzi, solo grazie alla dedizione del personale. Tutti sono alla loro ennesima missione. Giuseppe, ginecologo, Chiara anestesista, Paola e Clara infermiere di sala operatoria. Nessuno di loro però, mi anticipa che sarà una vera e propria maratona lavorativa. Non mi dicono che laggiù si lavora tanto senza sentire fatica; non mi dicono che non percepisci fisicamente e mentalmente la stanchezza. Non mi dicono che, all’ospedale Vezo, pur lavorando in condizioni difficili, senza la tecnologia e le comodità del nostro mondo, il lavoro è più leggero, senza tanta tensione, rilassante ma allo stesso tempo, carico di energia. Questo è uno dei tanti ricordi di quei giorni: lavorare senza eccessivo stress o eccessiva fatica. Ho lavorato per diciotto giorni consecutivi, dal 18 novembre al 5 dicembre. Un solo giorno di riposo: domenica 2 dicembre. La prima domenica, visite in ambulatorio e posizionamento di un tubo di drenaggio in un adolescente, affetto da pneumotorace da tubercolosi. Domenica 25 novembre, due urgenze in sala: un ragazzo con ferite d’arma da fuoco e un parto cesareo.
    Il paziente con ferite d’arma da fuoco arriva verso le 9:00 e la nostra gita domenicale al mare salta. Dodici ore prima, un proiettile gli era entrato in addome e uscito posteriormente nella zona lombare. Arriva da un lontano villaggio, accompagnato da una decina tra familiari e amici, tutti stipati nel pick-up che lo trasporta. Freneticamente lo scaricano sulla barella che Claudio, appena avuta la notizia del suo arrivo, aveva avvicinato all’ingresso dell’ospedale.
    Subito capiamo che è in shock emorragico. I vestiti intrisi di sangue, le gambe e i piedi macchiati di rosso, lasciano intuire una copiosa emorragia. Respira a fatica, è freddo e a stento riesce a manifestare il proprio dolore perché stremato dal lungo viaggio e dalle condizioni in cui versa. È cosciente solo a tratti, il polso e la pressione non sono rilevabili. Il proiettile aveva perforato il colon, l’intestino tenue, lesionato il rene e la milza. All’apertura dell’addome evacuo l’emoperitoneo e eseguo toilette del cavo peritoneale. Ha perso molto sangue. Quello che rimane nei vasi è diluito. Ad occhio, penso, avrà un’emoglobina pari a 5 mg/dl. Chiara esegue un esame: emoglobina pari a 5mg/dl. Non mi sbagliavo! A qualche cosa saranno pure serviti gli anni che ho passato in sala operatoria! Mentre opero questo paziente, metto in pratica quanto ho imparato nelle innumerevoli ore trascorse nelle sale operatorie più disparate (in Italia e in USA), ad operare in tutte le condizioni possibili, di notte, di giorno, di festa, in elezione e in urgenza..
    (fine I parte - continua)

  • #123

    Roberto Verzano (venerdì, 31 maggio 2019 00:37)

    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    (II parte)
    Per operare all’ospedale Vezo devi essere un chirurgo esperto. Non c’è dubbio. Lo affermo con forza e vorrei che tutti i volontari che vanno lì e i responsabili del reclutamento dei medici, abbiamo presente questo. Non c’è spazio per chirurghi con poca esperienza, per chirurghi che devono ancora imparare. Non c’è spazio per inesperti, se non vogliamo trasformare un’esperienza di servizio e di aiuto a persone bisognose, in un’esperienza di tirocinio, o peggio di “praticantato” senza supervisione. Con pochi mezzi e poche risorse a disposizione, devi sapere cosa fare e come farlo, anticipando problematiche potenzialmente irrimediabili in un ambiente non protetto. Devi evitare di infilarti in situazioni di “non ritorno”. Sento dire che gli ospedali delle missioni in Africa sono una “palestra” per i giovani medici. Non deve essere così. I muscoli li devi fare nelle sale operatorie italiane, con un chirurgo più esperto a farti da personal trainer. Quando arrivi in Africa devi avere già i muscoli grossi così. Tanto grossi e allenati da consentirti di muoverti nella palude degli ospedali africani.
    Chiara decide di trasfondere il paziente. Esce dalla sala e chiede ai parenti e amici dello sventurato di donare un po’ di sangue. Mette a contatto una goccia del sangue del paziente con una goccia dei vari donatori: la goccia di sangue che non provoca agglutinazione è quella del donatore giusto. Mentre sono intento a lavorare, ascolto e realizzo quanto avviene fuori; guardo un po’ perplesso il Collega di fronte a me, Giuseppe, che sorride e mi tranquillizza: “qui è così, non è come da noi, andrà tutto bene vedrai”. “Grazie Joseph”, rispondo io. E via di nuovo a suturare.
    Mi rimane da fare la splenectomia, la nefrectomia, resecare un tratto di intestino tenue e un tratto di colon. Anastomosi manuali (non abbiamo abbastanza suturatrici meccaniche: tre, quattro in tutto con poche ricariche), lavaggio, drenaggio e chiusura dell’addome. Lavoro con pochi fili di sutura e non sempre quelli giusti (mancavano i fili di prolene 6/0, Vicryl 3/0 e 4/0).
    Quando operi un paziente con un proiettile in corpo hai sempre e solo due possibilità: o stai operando un buono, o stai operando un cattivo. Se è un buono, è una vittima e non meritava quelle ferite. Se è un cattivo, se le è perlomeno cercate, quelle ferite. Meglio non sapere chi stai operando. Meglio non partecipare emotivamente, meglio non giudicare; esiste solo un paziente a cui salvare la vita. Sento dire dalle persone fuori dal tavolo operatorio, che lo sventurato a cui appartengono quelle anse intestinali che sto cercando di ricomporre, ha avuto un alterco con un marito geloso. Mi chiedo a quale categoria appartenga. È un buono o un cattivo?
    Al termine dell’intervento, parlo con i familiari tramite l’interprete. I parenti e gli amici, prima ammassati in macchina, si erano ora sparpagliati fuori la sala operatoria, aspettando notizie. Li osservo, sono vestiti con tanta povertà addosso. Hanno la stessa ansia dei parenti in Italia. Nessuna domanda però, solo tanta rassegnazione. Siamo tutti contenti. Io, Chiara e gli altri ci guardiamo con la complicità che solo un chirurgo e il suo team può avere, consapevoli che, anche questa volta, avevamo cambiato il corso degli eventi di un paziente. Forse, avevamo salvato una vita. Ma si, il paziente sta bene. Ce la può fare. La gita al mare poteva ben saltare se questa era la ricompensa! Claudio, il nostro direttore sanitario, mi dice: “se salvi pure questo ti strappo il passaporto”, facendo capire che mi vorrebbe “fisso” a lavorare in quell’ospedale dove c’è un disperato bisogno di chirurghi. Provo un senso di intima soddisfazione e contentezza che non riesco a nascondere: gongolo un po’.
    Io e gli altri andiamo a pranzo fuori a riprenderci un po’ di quella gita che era saltata. Giuseppe invece, rimane a pranzo in casa perché una donna ricoverata (una bevohoka, come si dice lì), è in travaglio. Vuole seguire personalmente le varie fasi. Da “navigato” ginecologo qual è, non si fida e prevede che un cesareo possa essere necessario. Nel pomeriggio, la partoriente ha un mancato impegno della parte presentata e Giuseppe decide di far nascere la bambina mediante taglio cesareo. Si ritorna in sala operatoria. Nessuna stanchezza, nessun problema, nessun rimpianto per un bagno al mare che non c’è stato.
    (fine II parte - continua)

  • #122

    Roberto Verzano (venerdì, 31 maggio 2019 00:36)

    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    (III parte)
    Sono abituato a lavorare duramente e per lunghi periodi, ma la stanchezza fisica e mentale alla lunga prevale. Ad Andavadoaka invece no. L’ospedale Vezo è immune da tutto ciò. Non rimpiangi quello che hai a casa, al lavoro. Non rimpiangi i confort del tuo ospedale, non rimpiangi i mezzi che gli ospedali in Italia ti mettono a disposizione
    Il paziente a cui avevano sparato non è sopravvissuto. Dopo tre ore di sala operatoria si era immediatamente ripreso. Stabile dal punto di vista emodinamico nelle fasi iniziali, ha cominciato poi a manifestare ipotensione, polso debole, oliguria (sepsi?) e una dispnea di cui non abbiamo capito le cause. Alle tre dell’indomani mattina viene Claudio in camera e svegliandomi dice: “lo sparato è in gasping”. Claudio è di guardia quella notte e per tutto il tempo ha seguito il paziente insieme a Sara e Stefania. La loro dedizione ai pazienti è totale. Hanno tutta la mia ammirazione
    Mi vesto in fretta, attraverso i pochi metri di sabbia che separano la corte dall’ospedale e trovo Chiara a letto del paziente, che scuote la testa. Non riesce a rianimare il paziente. Non abbiamo idea di quale sia il pH. La sacca del catetere vescicale è vuota. È in acidosi pensiamo, vista la frequenza respiratoria e l’anuria. Somministriamo alcune fiale di bicarbonato “a occhio”, senza un calcolo preciso. Respira male, la pressione e il polso vanno giù. Ci dobbiamo arrendere mi dice. In quel preciso momento, si che ho rimpianto. Se solo avessimo avuto un emogasanalizzatore con cui controllare il pH e magari correggerlo; se solo avessimo avuto un letto di terapia post operatoria dove poterlo monitorare nelle prime ore; se solo avessimo avuto un po’ più di farmaci vasopressori; se solo avessimo avuto un po’ più di tecnologia, se solo… non fossimo stati in Africa, ci siamo detti, forse, chissà? lo avremmo salvato. Io e Chiara ci guardiamo e appena gli occhi si incontrano, lo sguardo si abbassa consapevole della sconfitta. Forse non ce l’avrebbe fatta nemmeno da noi, nei nostri ospedali super attrezzati. Non lo sapremo mai. Dobbiamo assolutamente dotare l’ospedale di attrezzature per il monitoraggio post operatorio. Mi prometto di aiutare l’associazione in questo intento. Le risorse sono poche e ogni specialista cerca di ottenere mezzi e risorse per la sua specialità. A me, questa, sembra una priorità.
    Ripercorro mentalmente la mattina in cui il paziente è arrivato. Mi accorgo che la mente si sofferma su un particolare. A volte, fissiamo immagini che, al momento, sembrano irrilevanti ma poi invece, si rivelano piene di significati. Prima di entrare in sala operatoria, il mio sguardo indugia sulla barella. La barella con la quale il paziente sparato è stato trasportato in sala operatoria. Trasbordato dal pick-up sulla barella e da qui di corsa, in sala. Medici e infermieri immediatamente intorno al ragazzo si prodigano per la sua vita. Una vena da prendere, l’ossigeno da somministrare, la sala da preparare, i liquidi da infondere, gli strumenti da mettere sul tavolo, l’anestesia per poterlo operare e così via. La barella, l’unica presente in ospedale, è lì, davanti la sala operatoria, sporca del sangue del ragazzo, abbandonata in fretta con ancora sopra la camicia che portava. Tutto intorno corre, è frenetico; io mi fermo per un istante e osservo la barella. Riassume tutto lo sforzo di questo ospedale, dei suoi uomini. Il paziente è stato trasportato immediatamente in sala operatoria. Non hai mezzi, non hai personale a sufficienza. Hai solo i volontari, hai una sola barella. Quella barella ha riassunto e simboleggiato, in quel preciso istante in cui stavo per entrare in sala operatoria, tutta la nobiltà dell’ospedale Vezo, la nobiltà di quanto si fa in un mondo lontano, per lo più abbandonato e, a me, sconosciuto fino a pochi giorni prima. Quella barella ha riassunto la nobiltà di chi non si arrende, di chi non si scoraggia anche se non ha armi per combattere, la nobiltà di chi si dedica agli ultimi, agli indifesi e a i più deboli. Aver fatto parte di questo mondo, anche se per pochissimo tempo, è stato motivo di orgoglio. Lascio con lo sguardo la barella. Entro in sala operatoria, consapevole che sono povero di mezzi ma ricco di una nuova carica emotiva. E già so, che questa ricchezza mi accompagnerà per sempre, anche in Italia.
    (fine III parte - continua)

  • #121

    Antonio Verzano (venerdì, 31 maggio 2019 00:33)

    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    (IV parte)
    Sin dal primo giorno, la domenica 18 novembre, l’attività è stata impegnativa. Visite ambulatoriali, procedure a letto del paziente, esami ecografici e programmazione delle sedute operatorie nei giorni a seguire. Riccardo è un ecografista bravissimo. A chi serve una TAC se hai delle diagnosi ecografiche così affidabili? Il team è affiancato efficacemente da Augusto che, in maniera costante, supporta ogni attività dei medici e degli infermieri. Augusto ha sempre fornito una visione di insieme dell’ospedale. La sua esperienza di direttore generale di grandi ospedali si è fatta sentire. Nelle lunghe passeggiate mattutine in riva al mare, mi forniva una visione nitida dei nostri obbiettivi, delle nostre risorse e delle nostre possibilità. Mi spiegava, di fatto, come si sta in una missione sanitaria. Molte delle idee che adesso porto con me sono scaturite da quelle riflessioni, da quelle chiacchierate fatte con il sottofondo del mare che accarezzava la spiaggia.
    Inebriati dall’atmosfera magica, “tension-free” dell’ospedale Vezo, che non ti fa sentire la stanchezza del lavoro, abbiamo generato un po’ di confusione nelle liste operatorie. A volte due, addirittura tre casi di chirurgia maggiore, si sovrapponevano in una stessa giornata. Il “decano” Giuseppe, con l’entusiasmo di un giovane specializzando, non poneva limiti alle sedute operatorie. In 20 giorni ha eseguito ben 15 interventi ginecologici e un parto cesareo. Tra un intervento e un altro, Giuseppe trovava il tempo per decine e decine di ecografie ginecologiche, visite e consulenze in pazienti gravide. Per non perdere l’allenamento, ha seguito anche un paio di parti naturali. Per fortuna Clara e Paola riuscivamo a organizzare le liste operatorie che via via io e Giuseppe formavamo caoticamente. Giuseppe ha eseguito ben 6 istero-annessiectomie complesse per dimensioni dell’utero e stato infiammatorio pelvico. Tra queste, una associata a resezione del retto e, un’altra, a ricostruzione dell’uretere sinistro infiltrato dalla massa uterina. Non sono mancati gli interventi di chirurgia oncologica (tumore del testicolo, tumore della tiroide e tumore del rene), interventi di chirurgia minore (ernie, cisti del collo) e amputazioni di gamba e coscia. La cosa sorprendente è che, pur con i pochi mezzi di cui è dotato l’ospedale, siamo riusciti a eseguire interventi di chirurgia “ultra specialistica”. Mi riferisco a interventi eseguiti su bambini di sei mesi, a interventi di chirurgia maggiore (voluminosa massa renale), a interventi di chirurgia ginecologica con interessamento multiorgano, a splenectomie in ragazzi giovanissimi. Il merito di aver reso possibili queste attività –che in Italia si svolgono solo in Centri di riferimento- va a Chiara, impavida anestesista di indiscusse capacità e alle due infermiere di sala, Paola e Clara che, superando la barriera spazio-tempo, ci hanno fatto sentire in Italia come efficacia di funzionamento della sala operatoria.
    Sono grato a tutto il team di medici e infermieri che erano presenti. Tutti, indistintamente, hanno contribuito al funzionamento dell’ospedale e alla cura dei pazienti. Ho operato di splenectomia un ragazzo di 16 anni con una milza enorme, che occupava più di metà dell’addome. Un intervento difficile, ci eravamo detti al planning preoperatorio. Non ci sbagliavamo. Durante la dissezione dell’ilo della milza, la vena splenica, enorme e varicosa, si lacera e una marea di sangue comincia a montare su per il campo operatorio. Eravamo in due e con un divaricatore troppo piccolo per consentire una visione ottimale. Già! Solo adesso ricordo i mezzi che avevamo, solo adesso ricordo che l’aspiratore aveva il fiato corto! Facevo fatica a rimuovere il sangue. Dovevo aiutarmi con le pezze facendo assorbire il sangue che l’aspiratore non riusciva a portare via. Clara e Paola, che conoscevano le poche provviste in sala, mi rimproveravano di usarne troppe! Tampono l’emorragia con una pezza e chiedo all’onnipresente Augusto di lavarsi per aiutare nell’esposizione del campo operatorio. Manteniamo tutti la calma, avendo già vissuto questi momenti, avendo già eseguito centinaia di volte questi “stress test” per le nostre arterie coronarie. Chiedo un “clamp” vascolare, lo posiziono sulla parete della vena e con un prolene 5/0 suturo la breccia. Rilascio il clamp: niente sangue. L’emorragia è dominata. Guardo il monitor: la pressione è ancora a tre cifre! Usciti vivi (noi e il paziente) da questa palude rossa, con l’aiuto della solita Chiara che riesce (come, non so), a tenere stabile il paziente, completiamo l’intervento. Solita chiacchierata con i familiari. Tutto sembra procedere per il meglio.
    (fine IV parte - continua)

  • #120

    Roberto Verzano (venerdì, 31 maggio 2019 00:32)

    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    (V parte)
    Aspettiamo un paio di giorni ma qualcosa non va. Qualcosa ci sfugge. Addome disteso, drenaggi con abbondante produzione di liquido. Una radiografia dell’addome fa vedere aria libera in addome. Perforato? Aria intrappolata come in un normale postoperatorio? Ci vorrebbe una TAC dell’addome con mezzo di contrasto. Si vabbè! In un altro mondo, non qui ad Andavadoaka. Non è come da noi. Ripieghiamo su un’ecografia: liquido in addome. Che si fa? Discuto con il team le opzioni. Analisi di laboratorio non ne possiamo fare. Sarebbe utile dosare l’ammoniemia, capire se si è verificato uno shunt porto-sistemico. Il chirurgo è un decisionista, è abituato a intervenire per risolvere i problemi clinici senza attendere che i farmaci facciano effetto. Per di più, domani partiamo. Non abbiamo il lusso di aspettare. Se peggiora e noi siamo via, nessuno potrà operarlo di nuovo. È una scelta difficile perché il paziente non ha urgente bisogno di ritornare in sala. Si potrebbe anche aspettare. Ma tutto il team chirurgico parte e non vogliamo lasciare questa incombenza ai Colleghi non chirurghi. La medicina nelle missioni in Africa è per la maggior parte così: si lavora con equipe che vengono e poi vanno via. Anche questo aspetto per me è nuovo: un modo di fare medicina completamente diverso. Meglio operarlo adesso. Decisione che si rivela poi ottima. Avevamo dimenticato il fegato: fibrotico da verosimile infiltrazione malarica con conseguente ascite postoperatoria. Nessuna perforazione per fortuna! Dreno l’ascite e il paziente progressivamente migliora. Partiamo più sollevati ma non spensierati. Rimaniamo in contatto con in Colleghi in ospedale: sta meglio ci dicono, ma ha ancora ascite. Non potendo gestire gli elettroliti, monitorare gli effetti dei diuretici e di altri farmaci, conveniamo che l’unica soluzione è aspettare, lasciar fare a “Madre Natura” (spesso amica del chirurgo), aspettare che il ragazzo faccia il suo corso, lento ma verso la guarigione. Dopo alcuni giorni, quando siamo già in Italia, ci arriva sul cellulare una foto del ragazzo. È seduto tra Claudio e Fabio sul lettino dell’ambulatorio, con il cartellino dei pazienti ambulatoriali tra le gambe. È stato dimesso, completamente ristabilito. È vestito insolitamente bene: indossa una camicia a grosse righe, pulitissima e dei coloratissimi pantaloncini verdi. Sorride e ci saluta con le dita in segno di vittoria. Claudio e Fabio sorridono, più vittoriosi di lui!
    Le scomodità di vivere alla Corte, la puzza nel bagno, la doccia che non funziona e altri disagi, sono ben ripagati dalle soddisfazioni del lavoro. Le risate, gli scherzi e le chiacchiere fatte nel patio della corte, con il cielo stellato a fare da protagonista dopo cena, cancellano definitivamente ogni mal di schiena da materasso, ogni cattivo odore e fanno sembrare piacevoli anche le blatte che venivano a farti compagnia dappertutto.
    Ripenso a quei pazienti che non abbiamo potuto operare perché si sono presentati troppo tardi in ospedale. Partivamo e non potevamo prendercene cura. Non è come da noi. I team vengono e poi vanno via e i malati rimangono malati fino all’arrivo di una nuova equipe di medici che li potrà curare… se ancora curabili. Qualche rammarico c’è.
    Ripenso a quell’unica barella di cui è dotato l’ospedale, abbandonata davanti l’ingresso della sala, imbrattata del sangue del ragazzo sparato. Ripenso agli interventi eseguiti. Ripenso agli sforzi di noi tutti che abbiamo spinto quella barella, ogni giorno, avanti e indietro. Riguardo la foto del ragazzo al quale abbiamo tolto la milza. Sorrido anche io vittorioso, più di lui se è possibile. Solo ora, che ripenso a quella barella, mi rendo conto di quello che abbiamo fatto in ospedale in quei venti giorni passati troppo in fretta. Mi viene voglia di tornare. Se mi vorranno ancora con loro, tornerò anche io, a spingere quella barella.
    (fine)

    Roberto

  • #119

    Antonio Squintani (venerdì, 31 maggio 2019 00:16)

    Sono Antonio, abbiamo lasciato l’ospedale ieri mattina, ma vi assicuro che il mio pensiero è ancora lì. Sono stati giorni bellissimi, intensi, faticosi (soprattutto per le condizioni climatiche), ma molto istruttivi, stimolanti, affascinanti, che hanno risvegliato in me un sentimento che avevo abbandonato da diversi anni: l’amore per il prossimo, l’esser d’aiuto a qualcuno. Come ho più volte ripetuto durante il mio soggiorno, sono partito non con l’idea del missionario, ma con quella della conoscenza, del sapere, dell’imparare. Tutto questo si è puntualmente verificato, ma mai e poi mai avrei pensato che si risvegliasse in me quello spirito che mi ha spinto, quarant’anni fa, a fare il medico e che poi con il passare del tempo si è affievolito sempre di più fino a scomparire quasi del tutto. Ero convinto di essermi creato intorno una corazza impenetrabile, per cui la vita e la morte, la gioia ed il dolore, il piacere e la sofferenza hanno lo stesso significato. Per anni ho sofferto per la morte di un mio paziente, chiedendomi se avevo fatto tutto il possibile per salvarlo, per anni mi sono battuto, sacrificato, perché i malati terminali morissero nel proprio letto, circondati dai propri cari, per anni ho gioito per la nascita di un figlio in una coppia che aveva difficoltà ad averne; poi tutto questo, nell’ultimo periodo, è venuto meno, ed anche questo è uno dei motivi per cui penso che andrò in pensione anticipata tra qualche mese. La chiamano la sindrome del burnout e di solito è irreversibile, ma nel mio caso non è stato così. Quindi un grazie di cuore a tutta l’associazione.

  • #118

    Simona Maniscalco (domenica, 26 maggio 2019 18:06)

    Grazie a Mary , ad Elena e a tutta l’Associazione per avermi dato l’opportunità di fare questa esperienza.
    Devo dirti che sapendo di partire “sola” (senza nessuna persona conosciuta),le mie paure erano tante.
    Il viaggio è stato lungo,ma avevo tanta voglia di vedere, scoprire e conoscere quella realtà che molti colleghi mi avevano raccontato.
    L’impatto è stato forte....non nascondo che la prima settimana sono andata in crisi! Non mi sentivo adeguata alla situazione...non sapere come muovermi, la lingua (fortuna che c’erano i mediatori),la gente locale ecc...ho pianto!
    Grazie al gruppo di volontari che ho trovato,ho superato tutto !❤️Spirito di gruppo,questo ho trovato!
    Ho pianto anche l’ultimo giorno che ho trascorso li...ho lasciato una realtà che mi è rimasta nel cuore.
    L’unica cosa che posso dire che un po’ di Africa farebbe bene a tutti!!
    Grazie
    Simona Maniscalco

  • #117

    Chiara Godio (giovedì, 14 marzo 2019 20:58)

    E' passato ormai un mese da quando sono tornata. Faccio ancora fatica a vivere la vita quotidiana qui in Italia.
    La prima volta che sono partita per il Madagascar era l'estate del 2016. Io, neolaureata, confusa, che non sapevo quello che volevo dal mio futuro. Sono arrivata in questo mondo totalmente diverso dal mio. Un mondo bello ma allo stesso tempo difficile. Mi sono talmente innamorata di quel posto che a novembre 2018 ho deciso di tornare.
    Sono stata ad Andavadoaka per 3 mesi... 3 mesi veramente lunghi, intesi e faticosi. Ma stupendi. Ricordo ogni giorno vissuto lì come se fosse ieri. In questo periodo ho conosciuto davvero tante persone completamente diverse da me che sono diventate la mia famiglia.
    Sono molto arrabbiata. Sono arrabbiata perchè ci siamo ritrovati a dover gestire delle emergenze-urgenze senza materiale, senza farmaci. Senza niente. Delle volte è andata bene, siamo stati fortunati o siamo stati bravi noi. Non lo so, ma è andata bene. Altre volte no, perchè mancavano i farmaci, perchè non c'era la corrente, perchè l'ospedale più vicino era a 6 ore di jeep ma la famiglia non avevi i soldi per portarci il paziente o perchè alla madre non interessava della vita del proprio neonato, nato prematuro.
    Queste cose ti fanno pensare tanto, cosa potresti fare tu per migliorare le condizioni dell'ospedale, a cosa potrebbero fare gli altri per aiutare questa popolazione. Ti rendi conto che molte cose sono impossibili da attuare. Ti rendi conto che le cose si possono migliorare ma ci vorranno dei mesi non dei giorni come in Italia. Ti rendi conto che ci dovrebbe sempre essere un chirurgo disponibile e un'ostestrica h 24, ma invece ti ritrovi a dover mandare via un bambino con un emorragia interna perchè non si può operare o a far partorire tu una neomamma (che in realtà di ostetricia ti ricordi solo le cose scritte sui libri).
    Allora l'unica cosa che puoi fare è mettere da parte questo sentimento di rabbia e guardare solo il lato positivo di questa esperienza.
    I visi di quei splendidi bambini, i continui grazie che ogni giorno ricevevi dai pazienti anche se in realtà non avevi fatto neanche un decimo di quello che realmente si poteva fare. Le continue risate tra noi volontari e insieme al personale dell'ospedale.
    Mi sono resa conto che sono tornata a casa in Italia stanca ma felice. Sono cambiata in meglio e lo devo solo alla popolazione malgascia, perchè mi hanno insegnato veramente tante cose. Nel mio cuore rimarranno per sempre i loro sorrisi, il rumore del mare al tramonto e i cieli stellati che ogni notte mi accompagnavano in ospedale.

    Chiara

  • #116

    Tanja Loi (venerdì, 01 marzo 2019 17:22)

    Sono rientrata la settimana scorsa in Italia..dopo un mese trascorso presso l'Ospedale Vezo in quel villaggio sperduto di pescatori. Non potrò mai spiegare ne qui ne a voce quanto questa esperienza sia stata per me importante è significativa. L'ago della bilancia verte soprattutto verso elementi positivi..quelli negativi passano in secondo piano o addirittura li rimuovi. Dopo un viaggio lunghissimo ma altrettanto interessante..sono giunta con i miei compagni di avventura Marianna, Edo, la super pediatra Camilla e suo marito Andrea presso la struttura che ci avrebbe poi ospitati. Appena arrivati l'accoglienza di chi già era li è stata a dir poco calorosa..sia da parte di coloro che non conoscevo sia di coloro che avevo conosciuto alla riunione informativa di Bologna tra cui Ylenia "la ragazza dei vaccini". A letto dopo cena e la mattina dopo breefing e via alle danze in ospedale. Li fin dal principio ho percepito un calore umano indescrivibile..i sorrisi e la gratitudine dei pazienti ti spingono a voler dare sempre il meglio di te in ogni situazione. Pazienti nel vero senso del termine in quanto rimangono dalle 7 fino anche alle 13 ad aspettare il loro turno senza proferire parola di lamento, non come qui quando dopo 10 minuti di attesa in PS già iniziano le lamentele. Per qualsiasi necessità hai il supporto fantastico del personale malgascio..sempre disponibile ad aiutarti..a tradurti..a spiegarti..sempre con il sorriso sul volto. Ringrazio in particolare Odin e Floran che il più delle volte erano in ambulatorio pediatrico con me e Camilla. Non posso negare che talvolta le cose non filavano proprio nel verso giusto..come quando ti ritrovi a correre da un ambulatorio all'altro alla ricerca di un saturimetro funzionante o del pungidito..i farmaci che non ci sono..gli antibiotici dei bimbi da tenere in frigo (frigo che la notte non è acceso)..l'impossibilità di eseguire rx perché il macchinario era rotto..l'impossibilità di eseguire anche solo un semplice ph capillare o di poter somministrare più di 8 l di ossigeno ad un ragazzino di 11 anni molto dispnoico ( ora sei un angioletto Nelson...). Con il senno di poi avrei caricato la valigia con altre tipologie di farmaci e altro materiale. Ti ritrovi ad affrontare situazioni nuove e impegnative..come rianimare neonatini appena usciti dal grembo materno..alcuni li accompagni fino alla dimissione altri ti scivolano tra le mani in quelle notti interminabili. Pianti..abbracci..gioie..i sorrisi dei bambini..le risate delle mamme che ti vedono mentre sei seduta per terra sotto un albero a farti fare le treccine..non una parola di lamento..non uno sguardo giudicante o arrabbiato..sanno che fai il possibile e che lo fai con il cuore in mano. La fatica..le notti insonni..i dispiaceri..tutto lo superi..con più energia del giorno precedente..e ogni Alba la affronti con il sorriso. Ricordo quanto mi abbia riempito il cuore passeggiare l'ultimo giorno per il paese è sentirmi dire "salama Tanja" da una bambinetta che avevo conosciuto settimane prima dopo essermi persa tra le capanne ^^..Ricordo il pianto che ci siamo fatte il giorno della mia partenza io e una paziente bevuka..la madre di Francesca gemellina nata una di quelle lunghe e interminabili notti..
    Ricordo i paesaggi mozzafiato..la corsa in spiaggia alle 5 di mattina con le mie compagne pazzerelle..le serate a ballare in paese..il cielo con un tappeto di stelle che ti accarezza e ti protegge dall'alto..i profumi..i rumori..i silenzi..
    Sono certa..è più quanto ho ricevuto di quanto ho dato..
    Non sono mai stata così felice e connessa con me stessa..e nonostante fossi dall'altra parte del mondo mi sono sentita "a casa". Mi manca tutto..mi mancano tutti..
    Il mio cuore e la mia testa sono ancora li..e per questo il mio è un arrivederci..perché sicuramente tornerò in quel posto magico.
    Veloma

  • #115

    Roberto Verzaro (domenica, 20 gennaio 2019 22:14)

    6°Parte: I miei giorni all’ospedale Vezo
    Aspettiamo un paio di giorni ma qualcosa non va. Qualcosa ci sfugge. Addome disteso, drenaggi con abbondante produzione di liquido. Una radiografia dell’addome fa vedere aria libera in addome. Perforato? Aria intrappolata come in un normale postoperatorio? Ci vorrebbe una TAC dell’addome con mezzo di contrasto. Si vabbè! In un altro mondo, non qui ad Andavadoaka. Non è come da noi. Ripieghiamo su un’ecografia: liquido in addome. Che si fa? Discuto con il team le opzioni. Analisi di laboratorio non ne possiamo fare. Sarebbe utile dosare l’ammoniemia, capire se si è verificato uno shunt porto-sistemico. Il chirurgo è un decisionista, è abituato a intervenire per risolvere i problemi clinici senza attendere che i farmaci facciano effetto. Per di più, domani partiamo. Non abbiamo il lusso di aspettare. Se peggiora e noi siamo via, nessuno potrà operarlo di nuovo. È una scelta difficile perché il paziente non ha urgente bisogno di ritornare in sala. Si potrebbe anche aspettare. Ma tutto il team chirurgico parte e non vogliamo lasciare questa incombenza ai Colleghi non chirurghi. La medicina nelle missioni in Africa è per la maggior parte così: si lavora con equipe che vengono e poi vanno via. Anche questo aspetto per me è nuovo: un modo di fare medicina completamente diverso. Meglio operarlo adesso. Decisione che si rivela poi ottima. Avevamo dimenticato il fegato: fibrotico da verosimile infiltrazione malarica con conseguente ascite postoperatoria. Nessuna perforazione per fortuna! Dreno l’ascite e il paziente progressivamente migliora. Partiamo più sollevati ma non spensierati. Rimaniamo in contatto con in Colleghi in ospedale: sta meglio ci dicono, ma ha ancora ascite. Non potendo gestire gli elettroliti, monitorare gli effetti dei diuretici e di altri farmaci, conveniamo che l’unica soluzione è aspettare, lasciar fare a “Madre Natura” (spesso amica del chirurgo), aspettare che il ragazzo faccia il suo corso, lento ma verso la guarigione. Dopo alcuni giorni, quando siamo già in Italia, ci arriva sul cellulare una foto del ragazzo. È seduto tra Claudio e Fabio sul lettino dell’ambulatorio, con il cartellino dei pazienti ambulatoriali tra le gambe. È stato dimesso, completamente ristabilito. È vestito insolitamente bene: indossa una camicia a grosse righe, pulitissima e dei coloratissimi pantaloncini verdi. Sorride e ci saluta con le dita in segno di vittoria. Claudio e Fabio sorridono, più vittoriosi di lui!
    Le scomodità di vivere alla Corte, la puzza nel bagno, la doccia che non funziona e altri disagi, sono ben ripagati dalle soddisfazioni del lavoro. Le risate, gli scherzi e le chiacchiere fatte nel patio della corte, con il cielo stellato a fare da protagonista dopo cena, cancellano definitivamente ogni mal di schiena da materasso, ogni cattivo odore e fanno sembrare piacevoli anche le blatte che venivano a farti compagnia dappertutto.
    Ripenso a quei pazienti che non abbiamo potuto operare perché si sono presentati troppo tardi in ospedale. Partivamo e non potevamo prendercene cura. Non è come da noi. I team vengono e poi vanno via e i malati, rimangono malati fino all’arrivo di una nuova equipe di medici che li potrà curare… se ancora curabili. Qualche rammarico c’è.
    Ripenso a quell’unica barella di cui è dotato l’ospedale, abbandonata davanti l’ingresso della sala, imbrattata del sangue del ragazzo sparato. Ripenso agli interventi eseguiti. Ripenso agli sforzi di noi tutti che abbiamo spinto quella barella, ogni giorno, avanti e indietro. Riguardo la foto del ragazzo al quale abbiamo tolto la milza. Sorrido anche io vittorioso, più di lui se è possibile. Solo ora, che ripenso a quella barella, mi rendo conto di quello che abbiamo fatto in ospedale in quei venti giorni passati troppo in fretta. Mi viene voglia di tornare. Se mi vorranno ancora con loro, tornerò anche io, a spingere quella barella.
    Roberto

  • #114

    Roberto Verzaro (domenica, 20 gennaio 2019 22:09)

    4°Parte I miei giorni all’ospedale Vezo
    Sin dal primo giorno, la domenica 18 novembre, l’attività è stata impegnativa. Visite ambulatoriali, procedure a letto del paziente, esami ecografici e programmazione delle sedute operatorie nei giorni a seguire. Riccardo è un ecografista bravissimo. A chi serve una TAC se hai delle diagnosi ecografiche così affidabili? Il team è affiancato efficacemente da Augusto che, in maniera costante, supporta ogni attività dei medici e degli infermieri. Augusto ha sempre fornito una visione di insieme dell’ospedale. La sua esperienza di direttore generale di grandi ospedali si è fatta sentire. Nelle lunghe passeggiate mattutine in riva al mare, mi forniva una visione nitida dei nostri obbiettivi, delle nostre risorse e delle nostre possibilità. Mi spiegava, di fatto, come si sta in una missione sanitaria. Molte delle idee che adesso porto con me sono scaturite da quelle riflessioni, da quelle chiacchierate fatte con il sottofondo del mare che accarezzava la spiaggia.
    Inebriati dall’atmosfera magica, “tension-free” dell’ospedale Vezo, che non ti fa sentire la stanchezza del lavoro, abbiamo generato un po’ di confusione nelle liste operatorie. A volte due, addirittura tre casi di chirurgia maggiore, si sovrapponevano in una stessa giornata. Il “decano” Giuseppe, con l’entusiasmo di un giovane specializzando, non poneva limiti alle sedute operatorie. In 20 giorni ha eseguito ben 15 interventi ginecologici e un parto cesareo. Tra un intervento e un altro, Giuseppe trovava il tempo per decine e decine di ecografie ginecologiche, visite e consulenze in pazienti gravide. Per non perdere l’allenamento, ha seguito anche un paio di parti naturali. Per fortuna Clara e Paola riuscivamo a organizzare le liste operatorie che via via io e Giuseppe formavamo caoticamente. Giuseppe ha eseguito ben 6 istero-annessiectomie complesse per dimensioni dell’utero e stato infiammatorio pelvico. Tra queste, una associata a resezione del retto e, un’altra, a ricostruzione dell’uretere sinistro infiltrato dalla massa uterina. Non sono mancati gli interventi di chirurgia oncologica (tumore del testicolo, tumore della tiroide e tumore del rene), interventi di chirurgia minore (ernie, cisti del collo) e amputazioni di gamba e coscia. La cosa sorprendente è che, pur con i pochi mezzi di cui è dotato l’ospedale, siamo riusciti a eseguire interventi di chirurgia “ultra specialistica”. Mi riferisco a interventi eseguiti su bambini di sei mesi, a interventi di chirurgia maggiore (voluminosa massa renale), a interventi di chirurgia ginecologica con interessamento multiorgano, a splenectomie in ragazzi giovanissimi. Il merito di aver reso possibili queste attività –che in Italia si svolgono solo in Centri di riferimento- va a Chiara, impavida anestesista di indiscusse capacità e alle due infermiere di sala, Paola e Clara che, superando la barriera spazio-tempo, ci hanno fatto sentire in Italia come efficacia di funzionamento della sala operatoria.
    Sono grato a tutto il team di medici e infermieri che erano presenti. Tutti, indistintamente, hanno contribuito al funzionamento dell’ospedale e alla cura dei pazienti. Ho operato di splenectomia un ragazzo di 16 anni con una milza enorme, che occupava più di metà dell’addome. Un intervento difficile, ci eravamo detti al planning preoperatorio. Non ci sbagliavamo. Durante la dissezione dell’ilo della milza, la vena splenica, enorme e varicosa, si lacera e una marea di sangue comincia a montare su per il campo operatorio. Eravamo in due e con un divaricatore troppo piccolo per consentire una visione ottimale. Già! Solo adesso ricordo i mezzi che avevamo, solo adesso ricordo che l’aspiratore aveva il fiato corto! Facevo fatica a rimuovere il sangue. Dovevo aiutarmi con le pezze facendo assorbire il sangue che l’aspiratore non riusciva a portare via. Clara e Paola, che conoscevano le poche provviste in sala, mi rimproveravano di usarne troppe! Tampono l’emorragia con una pezza e chiedo all’onnipresente Augusto di lavarsi per aiutare nell’esposizione del campo operatorio. Manteniamo tutti la calma, avendo già vissuto questi momenti, avendo già eseguito centinaia di volte questi “stress test” per le nostre arterie coronarie. Chiedo un “clamp” vascolare, lo posiziono sulla parete della vena e con un prolene 5/0 suturo la breccia. Rilascio il clamp: niente sangue. L’emorragia è dominata. Guardo il monitor: la pressione è ancora a tre cifre! Usciti vivi (noi e il paziente) da questa palude rossa, con l’aiuto della solita Chiara che riesce (come, non so), a tenere stabile il paziente, completiamo l’intervento. Solita chiacchierata con i familiari. Tutto sembra procedere per il meglio.

  • #113

    Roberto Verzaro (domenica, 20 gennaio 2019 21:56)

    3°parte: I miei giorni all’ospedale Vezo
    Il paziente a cui avevano sparato non è sopravvissuto. Dopo tre ore di sala operatoria si era immediatamente ripreso. Stabile dal punto di vista emodinamico nelle fasi iniziali, ha cominciato poi a manifestare ipotensione, polso debole, oliguria (sepsi?) e una dispnea di cui non abbiamo capito le cause. Alle tre dell’indomani mattina viene Claudio in camera e svegliandomi dice: “lo sparato è in gasping”. Claudio è di guardia quella notte e per tutto il tempo ha seguito il paziente insieme a Sara e Stefania. La loro dedizione ai pazienti è totale. Hanno tutta la mia ammirazione
    Mi vesto in fretta, attraverso i pochi metri di sabbia che separano la corte dall’ospedale e trovo Chiara a letto del paziente, che scuote la testa. Non riesce a rianimare il paziente. Non abbiamo idea di quale sia il pH. La sacca del catetere vescicale è vuota. È in acidosi pensiamo, vista la frequenza respiratoria e l’anuria. Somministriamo alcune fiale di bicarbonato “a occhio”, senza un calcolo preciso. Respira male, la pressione e il polso vanno giù. Ci dobbiamo arrendere mi dice. In quel preciso momento, si che ho rimpianto. Se solo avessimo avuto un emogasanalizzatore con cui controllare il pH e magari correggerlo; se solo avessimo avuto un letto di terapia post operatoria dove poterlo monitorare nelle prime ore; se solo avessimo avuto un po’ più di farmaci vasopressori; se solo avessimo avuto un po’ più di tecnologia, se solo… non fossimo stati in Africa, ci siamo detti, forse, chissà? lo avremmo salvato. Io e Chiara ci guardiamo e appena gli occhi si incontrano, lo sguardo si abbassa consapevole della sconfitta. Forse non ce l’avrebbe fatta nemmeno da noi, nei nostri ospedali super attrezzati. Non lo sapremo mai. Dobbiamo assolutamente dotare l’ospedale di attrezzature per il monitoraggio post operatorio. Mi prometto di aiutare l’associazione in questo intento. Le risorse sono poche e ogni specialista cerca di ottenere mezzi e risorse per la sua specialità. A me, questa, sembra una priorità.
    Ripercorro mentalmente la mattina in cui il paziente è arrivato. Mi accorgo che la mente si sofferma su un particolare. A volte, fissiamo immagini che, al momento, sembrano irrilevanti ma poi invece, si rivelano piene di significati. Prima di entrare in sala operatoria, il mio sguardo indugia sulla barella. La barella con la quale il paziente sparato è stato trasportato in sala operatoria. Trasbordato dal pick-up sulla barella e da qui di corsa, in sala. Medici e infermieri immediatamente intorno al ragazzo si prodigano per la sua vita. Una vena da prendere, l’ossigeno da somministrare, la sala da preparare, i liquidi da infondere, gli strumenti da mettere sul tavolo, l’anestesia per poterlo operare e così via. La barella, l’unica presente in ospedale, è lì, davanti la sala operatoria, sporca del sangue del ragazzo, abbandonata in fretta con ancora sopra la camicia che portava. Tutto intorno corre, è frenetico; io mi fermo per un istante e osservo la barella. Riassume tutto lo sforzo di questo ospedale, dei suoi uomini. Il paziente è stato trasportato immediatamente in sala operatoria. Non hai mezzi, non hai personale a sufficienza. Hai solo i volontari, hai una sola barella. Quella barella ha riassunto e simboleggiato, in quel preciso istante in cui stavo per entrare in sala operatoria, tutta la nobiltà dell’ospedale Vezo, la nobiltà di quanto si fa in un mondo lontano, per lo più abbandonato e, a me, sconosciuto fino a pochi giorni prima. Quella barella ha riassunto la nobiltà di chi non si arrende, di chi non si scoraggia anche se non ha armi per combattere, la nobiltà di chi si dedica agli ultimi, agli indifesi e a i più deboli. Aver fatto parte di questo mondo, anche se per pochissimo tempo, è stato motivo di orgoglio. Lascio con lo sguardo la barella. Entro in sala operatoria, consapevole che sono povero di mezzi ma ricco di una nuova carica emotiva. E già so, che questa ricchezza mi accompagnerà per sempre, anche in Italia.

  • #112

    Roberto Verzaro (domenica, 20 gennaio 2019 21:41)

    2°Parte
    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    Per operare all’ospedale Vezo devi essere un chirurgo esperto. Non c’è dubbio. Lo affermo con forza e vorrei che tutti i volontari che vanno lì e i responsabili del reclutamento dei medici, abbiamo presente questo. Non c’è spazio per chirurghi con poca esperienza, per chirurghi che devono ancora imparare. Non c’è spazio per inesperti, se non vogliamo trasformare un’esperienza di servizio e di aiuto a persone bisognose, in un’esperienza di tirocinio, o peggio di “praticantato” senza supervisione. Con pochi mezzi e poche risorse a disposizione, devi sapere cosa fare e come farlo, anticipando problematiche potenzialmente irrimediabili in un ambiente non protetto. Devi evitare di infilarti in situazioni di “non ritorno”. Sento dire che gli ospedali delle missioni in Africa sono una “palestra” per i giovani medici. Non deve essere così. I muscoli li devi fare nelle sale operatorie italiane, con un chirurgo più esperto a farti da personal trainer. Quando arrivi in Africa devi avere già i muscoli grossi così. Tanto grossi e allenati da consentirti di muoverti nella palude degli ospedali africani.
    Chiara decide di trasfondere il paziente. Esce dalla sala e chiede ai parenti e amici dello sventurato di donare un po’ di sangue. Mette a contatto una goccia del sangue del paziente con una goccia dei vari donatori: la goccia di sangue che non provoca agglutinazione è quella del donatore giusto. Mentre sono intento a lavorare, ascolto e realizzo quanto avviene fuori; guardo un po’ perplesso il Collega di fronte a me, Giuseppe, che sorride e mi tranquillizza: “qui è così, non è come da noi, andrà tutto bene vedrai”. “Grazie Joseph”, rispondo io. E via di nuovo a suturare.
    Mi rimane da fare la splenectomia, la nefrectomia, resecare un tratto di intestino tenue e un tratto di colon. Anastomosi manuali (non abbiamo abbastanza suturatrici meccaniche: tre, quattro in tutto con poche ricariche), lavaggio, drenaggio e chiusura dell’addome. Lavoro con pochi fili di sutura e non sempre quelli giusti (mancavano i fili di prolene 6/0, Vicryl 3/0 e 4/0).
    Quando operi un paziente con un proiettile in corpo hai sempre e solo due possibilità: o stai operando un buono, o stai operando un cattivo. Se è un buono, è una vittima e non meritava quelle ferite. Se è un cattivo, se le è perlomeno cercate, quelle ferite. Meglio non sapere chi stai operando. Meglio non partecipare emotivamente, meglio non giudicare; esiste solo un paziente a cui salvare la vita. Sento dire dalle persone fuori dal tavolo operatorio, che lo sventurato a cui appartengono quelle anse intestinali che sto cercando di ricomporre, ha avuto un alterco con un marito geloso. Mi chiedo a quale categoria appartenga. È un buono o un cattivo?
    Al termine dell’intervento, parlo con i familiari tramite l’interprete. I parenti e gli amici, prima ammassati in macchina, si erano ora sparpagliati fuori la sala operatoria, aspettando notizie. Li osservo, sono vestiti con tanta povertà addosso. Hanno la stessa ansia dei parenti in Italia. Nessuna domanda però, solo tanta rassegnazione. Siamo tutti contenti. Io, Chiara e gli altri ci guardiamo con la complicità che solo un chirurgo e il suo team può avere, consapevoli che, anche questa volta, avevamo cambiato il corso degli eventi di un paziente. Forse, avevamo salvato una vita. Ma si, il paziente sta bene. Ce la può fare. La gita al mare poteva ben saltare se questa era la ricompensa! Claudio, il nostro direttore sanitario, mi dice: “se salvi pure questo ti strappo il passaporto”, facendo capire che mi vorrebbe “fisso” a lavorare in quell’ospedale dove c’è un disperato bisogno di chirurghi. Provo un senso di intima soddisfazione e contentezza che non riesco a nascondere: gongolo un po’.
    Io e gli altri andiamo a pranzo fuori a riprenderci un po’ di quella gita che era saltata. Giuseppe invece, rimane a pranzo in casa perché una donna ricoverata (una bevohoka, come si dice lì), è in travaglio. Vuole seguire personalmente le varie fasi. Da “navigato” ginecologo qual è, non si fida e prevede che un cesareo possa essere necessario. Nel pomeriggio, la partoriente ha un mancato impegno della parte presentata e Giuseppe decide di far nascere la bambina mediante taglio cesareo. Si ritorna in sala operatoria. Nessuna stanchezza, nessun problema, nessun rimpianto per un bagno al mare che non c’è stato.
    Sono abituato a lavorare duramente e per lunghi periodi, ma la stanchezza fisica e mentale alla lunga prevale. Ad Andavadoaka invece no. L’ospedale Vezo è immune da tutto ciò. Non rimpiangi quello che hai a casa, al lavoro. Non rimpiangi i confort del tuo ospedale, non rimpiangi i mezzi che gli ospedali in Italia ti mettono a disposizione.

  • #111

    Roberto Verzaro (domenica, 20 gennaio 2019 21:28)

    I miei giorni all’ospedale Vezo.
    1°Parte
    Solo quando il Boeing 777 dell’Airfrance impatta il suolo con le ruote, mi rendo conto di essere arrivato in Africa. Di notte, il continente nero non offre luci per orientare il passeggero sulla vicinanza dell’aeroporto. Non ti da il tempo di prepararti all’atterraggio. Sai che hai iniziato la discesa per l’aeroporto ma solo il pilota può sapere quanto è prossimo l’atterraggio. Il passeggero non ha riferimenti guardando dal finestrino. Non è come da noi, dove le luci, le case e gli edifici, via via si fanno più vicini e sai che stai per toccare la pista. Niente di tutto questo, il passaggio è brutale, immediato. Non è come da noi. Questa frase la ripeterò spesso durante i miei giorni all’ospedale Vezo. Sono in Africa. In Madagascar per l’esattezza, ad Antananarivo. Dodici ore prima ero in Europa, con le luci, i suoni, il frastuono (o il fastidio mi viene da dire adesso), della civiltà. Sono immerso in una dimensione diversa. Destinazione finale: ospedale Vezo ad Andavadoaka. Mai stato in Madagascar, mai stato in Africa. Mai stato in missione prima. Sono contento, concentrato e pronto per il lavoro che mi aspetta. I Colleghi che compongono il team sembrano in gamba, simpatici e per di più non tradiscono particolari emozioni. Tra uno sbadiglio e l’altro, mentre stirano i muscoli intorpiditi dal lungo viaggio, mi confermano la loro esperienza sul campo, cercano di spiegarmi come funzionano le cose in ospedale. Mi anticipano le problematiche tecniche e le limitazioni che incontreremo durante il nostro lavoro, la mancanza di molti dispositivi medici, la scarsezza delle risorse dell’ospedale che sopravvive con pochi mezzi, solo grazie alla dedizione del personale. Tutti sono alla loro ennesima missione. Giuseppe, ginecologo, Chiara anestesista, Paola e Clara infermiere di sala operatoria. Nessuno di loro però, mi anticipa che sarà una vera e propria maratona lavorativa. Non mi dicono che laggiù si lavora tanto senza sentire fatica; non mi dicono che non percepisci fisicamente e mentalmente la stanchezza. Non mi dicono che, all’ospedale Vezo, pur lavorando in condizioni difficili, senza la tecnologia e le comodità del nostro mondo, il lavoro è più leggero, senza tanta tensione, rilassante ma allo stesso tempo, carico di energia. Questo è uno dei tanti ricordi di quei giorni: lavorare senza eccessivo stress o eccessiva fatica.
    Ho lavorato per diciotto giorni consecutivi, dal 18 novembre al 5 dicembre. Un solo giorno di riposo: domenica 2 dicembre. La prima domenica, visite in ambulatorio e posizionamento di un tubo di drenaggio in un adolescente, affetto da pneumotorace da tubercolosi. Domenica 25 novembre, due urgenze in sala: un ragazzo con ferite d’arma da fuoco e un parto cesareo.
    Il paziente con ferite d’arma da fuoco arriva verso le 9:00 e la nostra gita domenicale al mare salta. Dodici ore prima, un proiettile gli era entrato in addome e uscito posteriormente nella zona lombare. Arriva da un lontano villaggio, accompagnato da una decina tra familiari e amici, tutti stipati nel pick-up che lo trasporta. Freneticamente lo scaricano sulla barella che Claudio, appena avuta la notizia del suo arrivo, aveva avvicinato all’ingresso dell’ospedale.
    Subito capiamo che è in shock emorragico. I vestiti intrisi di sangue, le gambe e i piedi macchiati di rosso, lasciano intuire una copiosa emorragia. Respira a fatica, è freddo e a stento riesce a manifestare il proprio dolore perché stremato dal lungo viaggio e dalle condizioni in cui versa. È cosciente solo a tratti, il polso e la pressione non sono rilevabili. Il proiettile aveva perforato il colon, l’intestino tenue, lesionato il rene e la milza. All’apertura dell’addome evacuo l’emoperitoneo e eseguo toilette del cavo peritoneale. Ha perso molto sangue. Quello che rimane nei vasi è diluito. Ad occhio, penso, avrà un’emoglobina pari a 5 mg/dl. Chiara esegue un esame: emoglobina pari a 5mg/dl. Non mi sbagliavo! A qualche cosa saranno pure serviti gli anni che ho passato in sala operatoria! Mentre opero questo paziente, metto in pratica quanto ho imparato nelle innumerevoli ore trascorse nelle sale operatorie più disparate (in Italia e in USA), ad operare in tutte le condizioni possibili, di notte, di giorno, di festa, in elezione e in urgenza.

  • #110

    Valentina Sivieri (venerdì, 18 gennaio 2019 17:59)

    Vorrei essere in grado di far capire a chi legge questa recensione quanto abbia significato per me questa esperienza ma alla fine credo che non ne sarò mai del tutto capace.
    La gestione del lavoro e dell’ospedale verrà descritta in dettaglio durante gli incontri di formazioni che precedono la partenza e non voglio quindi soffermarmici ma voglio solo cercare di far capire almeno in parte come questa potrebbe essere la cosa più bella che qualcuno possa decidere di fare…almeno per me è stato questo.
    Sono partita in settembre 2018 e dovevo fermarmi due mesi ma a metà del mio periodo mi è stato chiesto di prolungare fino a inizio dicembre; partire è stata la scelta migliore che abbia mai preso , quella di prolungare è stata la seconda e tornarci sarà la terza.
    Sono in Italia da circa un mese e non c’è giorno che non vorrei svegliarmi alla corte, che non pensi ai nostri pazienti e che non provi il desiderio di ripartire.
    Li ho davvero capito il concetto di priorità e di gestione delle risorse. Ho imparato a chiedermi ogni volta “è davvero necessario che utilizzi questa garza in più, questo farmaco, questa fisiologica, questo test rapido” consapevole del fatto che se li si finiscono le scorte non possiamo sapere se e quando sarà possibile reperirle.
    Ho imparato cosa vuol dire davvero lavorare in equipe e potersi confrontare con tutti collaborando fianco a fianco per un unico obiettivo comune.
    Ho capito quanti limiti possiamo avere senza i mille specialisti, i macchinari, gli esami e i mezzi diagnostici di cui disponiamo in Italia e contemporaneamente anche quante cose siamo in grado di fare senza tutto quello.
    Ricordo ogni dettaglio con enorme affetto: dall’ospedale con il suo laboratorio, gli ambulatori, la “sala d’attesa”, i colleghi, i traduttori fino a tutti i nostri pazienti con le medicazioni sempre piene di sabbia, i loro schemi per ricordarsi quando prendere le terapie e le scatole improbabili dove conservarle e la loro “cartella sanitaria” con i bigliettini per gli appuntamenti.
    Sono tornata in Italia con il cuore 10 volte più grande e la testa piena dei meravigliosi ricordi che mi ha regalato questa esperienza.
    Anzi per essere del tutto sinceri io sono tornata in Italia ma buona parte del mio cuore è sicuramente rimasta sotto il cielo di Andavaoaka.
    Valentina

  • #109

    Aristide Morigi, Alessandro Ricci (venerdì, 11 gennaio 2019 19:45)

    Alcune considerazioni post esperienza Madagascar
    Alla luce di quanto visto vissuto e metabolizzato, considerando la nostra NON conoscenza associativa e tantomeno storica di quanto fatto precedentemente da altri volontari, riteniamo di sottoporre alla vostra attenzione alcuni punti:
    1: la oggettiva lontananza geografica, con il viaggio spalmato su tre giorni, rende opportune permanenze prolungate. Queste ultime per dipendenti risultano di difficile ottenimento in particolare per anestesisti i cui organici ospedalieri risultano sempre carenti con conseguente difficoltà a ottenere ferie di lunga durata.
    2: avere ad Andavadoaka medici di esperienza, ancora non pensionati, per quanto ci riguarda è fattibile solo se la missione non si effettua in regime solo di ferie, ma almeno con un contributo di “comando” (anche il viaggio è oggettivamente oneroso economicamente)
    4: L’unica tecnica diagnostica possibile al "Vezo" è quella ecografica per cui riteniamo fondamentale la presenza nell’equipe chirurgica di un esperto ecografista sia per la stadiazione e l’indicazione chirurgica pre sia per la gestione di eventuali complicanze postoperatorie.
    Alla luce di questa necessità diventa importante la definizione delle patologie aggredibili chirurgicamente in sicurezza. Evidenziare l’obiettivo clinico primario e trarne delle conseguenze.
    Comunque l’esperienza rimane per noi meravigliosa sia per l’ottima organizzazione in loco (Michele è veramente in gamba) che per l’ottimo gruppo di lavoro. Speriamo di poter essere disponibili per altre permanenze. Grazie ancora
    Alessandro Ricci
    Aristide Morigi

  • #108

    Simona Maniscalco (venerdì, 11 gennaio 2019 17:16)

    Grazie a tutta l’associazione perche’ mi avete dato l’opportunità di fare questa esperienza.
    Devo dirti che sapendo di partire “sola”(senza nessuna persona conosciuta),le mie paure erano tante.
    Il viaggio è stato lungo,ma avevo tanta voglia di vedere,scoprire e conoscere quella realtà che molti colleghi mi avevano raccontato.
    L’impatto è stato forte....non ti nascondo che la prima settimana sono andata in crisi! Non mi sentivo adeguata alla situazione...non sapere come muovermi,la lingua (fortuna che c’erano i mediatori),la gente locale ecc...ho pianto!
    Grazie al gruppo di volontari che ho trovato,ho superato tutto !❤
    Spirito di gruppo,questo ho trovato! Ho pianto anche l’ultimo giorno che ho trascorso li...ho lasciato una realtà che mi è rimasta nel cuore.
    L’unica cosa che posso dire che un po’ di Africa farebbe bene a tutti!!
    Grazie
    Simona

  • #107

    Matilde Micheli (lunedì, 07 gennaio 2019 16:09)

    Non è facile provare a mettere per iscritto un'esperienza così grande. Mi risulta difficile trovare le parole, ma voglio provarci.
    Sono partita per Andavadoaka un po' all'improvviso: nel giro di una settimana mi hanno detto che c'era bisogno di un medico, che sarei dovuta partire dopo 10 giorni per l'Hopitaly Vezo.
    Ho pensato e dubitato, e ancora oggi mi domando perché. Forse la paura di fare il medico in una terra lontana? La paura di non essere all'altezza? La paura di non saper lavorare in un ospedale non occidentale?
    Sono partita con mille domande, e solo ad alcune ho trovato risposta.
    Una volta arrivati ad Andavadoaka, siamo stati accolti da una comunità. Ed è proprio questa una delle cose più belle: lavorare insieme, crescere e condividere le proprie ansie e paure. E tante ne avevo i primi giorni, e ne ho continuate ad avere! Ma la tranquillità di poter contare sugli altri è stato qualcosa di speciale.
    Lavorare all'Hopitaly Vezo vuol dire mettersi in gioco, essere disposti a perdere ogni certezza acquisita, sentirsi impotenti. Ma c'è qualcosa di magico che ti cattura e che ti da la felicità e il coraggio di andare avanti. Il popolo malgascio è accogliente, così come la Corte dei Gechi. Si cresce e si condivide, INSIEME. Si ha paura, ma INSIEME.
    I ritmi lavorativi sono intensi fisicamente, ma soprattutto psicologicamente.
    Dopo i primi giorni persa e spaventata, mi sono sentita a casa. L'ospedale, i mediatori, il villaggio, i volontari, Michele il farmacista, sono diventati la mia casa. Ed è per questo che la voglia di tornare è tanta, perché ti senti di aver fatto troppo poco per ringraziare di tutto quello che ti è stato donato. Sì voglio tornare. per ringraziare , per continuare a crescere insieme agli altri, per lavorare, per ridere e piangere, per continuare a sentirmi a casa.


    Mi piace concludere così il mio racconto, con piccoli ringraziamenti e parole estrapolati dal mio Veloma (discorso di arrivederci, perché non è un addio!)
    "Mi è piaciuto Lavorare in gruppo e collaborare, correre da una stanza ad un altra per chiedere aiuto, mettermi le mani nei capelli e dire "e ora cosa faccio"? Mi sono sempre sentita rassicurata però, perché sapevo di poter contare su tutti.
    Mi sono sentita a casa , che forse è stata la sensazione più bella.
    Non dimenticherò i pazienti , dalla goffaggine nell'aprire una porta, allo stupore di una peristalsi o di un torace che si muove con il respiro, alla descrizione teatrale del loro marari, a quelli che riescono con difficoltà a mettere il dito nel saturimetro, alla loro malinconica speranza della fanafudi, al sorriso e al grazie dopo ogni visita.
    Sono partita terrorizzata e spaventata e ancora non mi capacito di come abbia potuto dubitare se partire o meno. Sono felice di essermi buttata a pieno in questa avventura, di averla condiviso con tutti voi e con chi non è qui. Grazie perché anche se non vi può sembrare , mi avete dato tanto.
    Ho cercato di ascoltare e imparare il piu possibile, capire e accettare tutti i limiti e gli ostacoli che ho incontrato.
    Torno con mille dubbi, con una nostalgia infinita anche se sono ancora qua ma con tanta è troppa
    Voglia di tornare . E come ogni volta in queste esperienze mi sento infinitamente egoista , perché mi sembra sempre di aver ricevuto tanto e dato poco, troppo poco.
    Grazie a tutti i traduttori, sempre disponibili e sorridenti, perché anche da voi ho imparato tanto. Mi avete accompagnato con allegria e ho capito quanto siate fondamentali per questo posto .
    Non dimenticherò mai tutt'e le risate che ci siamo fatti!
    Grazie ad AmicidiAmpasilava, per l'opportunità e la fiducia data.
    E Grazie a Michi. C'è sempre stato, è stato il mio punto di riferimento dentro e fuori dall'ospedale.
    Mi ha insegnato tanto, più di quanto possa pensare.
    Ma soprattutto mi ha accompagnato nella scoperta di questo posto e mi ha insegnato ad amarlo, facendomi sentire felice e a casa."
    Matilde

  • #106

    Sanja Sadikovic (venerdì, 14 dicembre 2018 03:56)

    Un villaggio di pescatori sperduto dall’altra parte del mondo, un cielo così infinito e imponente che ti protegge dall’alto, un’oceano che ti culla, e un popolo che non ti aspetti. Ancora oggi ho paura di utilizzare aggettivi sbagliati per descrivere le mia esperienza all’ospedale Vezo, e credo che non esistano parole per spiegare tutto ciò che si prova. È come se il cuore si allargasse per permetterti di provare delle emozioni che non credevi fosse possibile provare, e credi per un attimo di non riuscire a contenerle tutte. Impossibile raccontare tutto in poche righe. Dal punto di vista professionale preparatevi ad incontrare casi clinici di ogni genere (tantissimi parti, pazienti neurologici, oncologici, diabetici, nstemi, epa, tbc, gonorrea, sifilide, scompensi..), e dimenticatevi l’accanimento terapeutico occidentale. Io ho imparato a conoscere l’umanità, a dare la giusta importanza alle cose, mi sono confrontata con le lacrime, le paure, la difficoltà apparente di non riuscire a comunicare, a volte mi sono scontrata con la mia morale e con la mia professione. Ma soltanto in quell’ospedale mi sono sentita di essere e non di fare l’infermiera. Perché tra le tante cose belle ad Andavadoaka c’è proprio questo: mettiamo in gioco noi stessi, siamo a disposizione sempre, offriamo tutte le nostre conoscenze e non c’è distinzione tra le figure professionali: se sai farlo lo fai, se lo fai io ti guardo così poi lo saprò fare anche io. È un passaggio di testimone, come quando un gruppo di volontari affida al gruppo successivo i propri pazienti. Se ci pensate esiste una forma di protezione in tutto questo, una protezione e una riconoscenza infinita nei confronti di un popolo che ci accoglie come se fossimo loro figli. La corte dei gechi è casa e ció che più mi porterò nel cuore è il calore dei volontari che ci hanno accolti la prima sera dopo quei famosi tre giorni di viaggio infinito, e che ci hanno guidato quasi per mano, anche da lontano, per tutto il tempo della nostra permanenza. Grazie a loro ho riscoperto di nuovo cosa vuol dire appartenere ad un gruppo, lavorare in un team. E poi da fare cornice a tutto questo c’è un oceano che ti culla anche di notte, una birra condivisa sulla spiaggia con delle persone straordinarie incontrate per puro caso, il fritto a tutte le ore, i cacapigeons e i sambosa, i virus intestinali e i plasil IM notturni, un cielo così tanto stellato che non ti aspetti, e una chitarra in corte che non può non suonare. Un ringraziamento infinito va ai miei compagni di avventura, alle risate, alle partite clamorosamente perse a pallavolo, ai bagni al mare, alle serate di guardia e anche a quelle al Dada. Un grazie al personale locale, la vera colonna portante di questo ospedale. Ricordiamoci sempre che noi siamo, purtroppo, solo delle pedine passeggere. E grazie a Michi, per essere la straordinaria persona che è, per aver fatto delle scelte apparentemente folli, e per quella luce che ha negli occhi che gli invidierò per sempre.
    Io credo che chi decide di intraprendere una missione non lo fa per aiutare gli altri, tanto meno per aiutare se stesso. Lo fai perché altrimenti impazzisci, lo fai perché c’è qualcosa che ti si smuove dentro e non puoi placarlo. Quest’esperienza è riuscita ad alimentare questo qualcosa, e credo che non riuscirò mai più a placarlo. È stato un grand bel veloma, a presto Andavadoaka!

  • #105

    Carmelo Marco Morrone (lunedì, 29 ottobre 2018 22:24)

    Il mio mese di volontariato all'Hopitaly Vezo è stato indimenticabile, dal punto di vista umano e professionale. Ho lasciato ad Andavadoaka una parte di me, non riesco a spiegarlo diversamente, quando sono tornato qui a Torino i primi 10 giorni sono stati durissimi, niente aveva colore, interesse e sapore, mi mancava tutto quello che avevo laggiù, per quanto, in realtà, laggiù avessi molto meno di quello che si potrebbe trovare qui, nel "mondo occidentale".
    Ogni volta che racconto a qualcuno della mia esperienza malgascia (ultima volta ieri, durante una visita domiciliare) gli occhi mi brillano ed è molto strano, perchè tendenzialmente non sono una persona che ama lasciar trasparire le proprie emozioni.
    La Corte dei Gechi è organizzata in modo impeccabile, permette l'aggregazione tra i volontari, aspetto che ritengo fondamentale per poter lavorare tutti insieme in maniera adeguata, ed io credo di essere stato particolarmente fortunato perchè nel mese in cui sono stato lì ho trovato persone meravigliose e disponibili; appena arrivato, la prima sera, mi sono subito sentito a casa perchè sono stato accolto a braccia aperte da chi era già lì e ho cercato a mia volta di comportarmi nello stesso modo coi volontari che sono arrivati dopo di me nel mese di settembre.
    Una menzione particolare la riservo a Michele, che ci ha letteralmente "presi per mano" quando siamo arrivati, facendoci sentire a nostro agio ed insegnandoci cose che nemmeno ci saremmo sognati di poter e saper fare. Un conto è stare un mese o due, come me, un conto è vivere laggiù in pianta stabile e occuparsi di ogni aspetto che riguardi la vita lavorativa dell'Hopitaly Vezo. Io non credo che sarei in grado di fare ciò che fa lui, quindi merita davvero tutta la mia gratitudine.
    La cosa che più ho apprezzato, dal punto di vista lavorativo, è stata che durante un'esperienza del genere non esistono gerarachie, non ci sono medici che fanno solo i medici, infermieri che fanno solo gli infermieri, tutti fanno tutto ed io ho avuto la possibilità di imparare tantissimo da chiunque abbia lavorato con me ed a mia volta mi sono impegnato a lasciare loro qualcosa che facesse parte del mio bagaglio professionale. Questo è bellissimo ed è una cosa che manca tanto qui da noi.
    Porterò per sempre con me gli occhi, le risate contagiose ed i sorrisi del popolo malgascio, le emozioni provate nei momenti di gioia, come la nascita di un piccolo Zazakeli, e quelle provate nei momenti meno belli, lavorativamente parlando, perchè purtroppo succede anche questo. Personalmente, il momento di difficoltà più grande è stata legata ai 6 giorni di totale inappetenza, nausea e diarrea causati da un virus intestinale (dico così perchè ho fatto l'esame feci) ma è una cosa che avevo messo in conto :-)
    Ci tengo a ringraziare tutti i mediatori, Odin, Ramaro, Vivien e Danielline, perchè senza il loro contributo noi non saremmo in grado di svolgere il nostro lavoro e perchè, dal punto di vista umano, sono stati accoglienti, coinvolgenti e tenerissimi.
    Come dicevo all'inizio, ho lasciato laggiù una parte di me, e farò di tutto per tornare, in un futuro prossimo, a "riprendermela", oppure, chissà, a lasciare un altro pezzo di me. Non voglio dire banalità, ma consiglierei a chiunque di fare un'esperienza come quella che ho avuto l'onore ed il piacere di fare io, perchè ti aiuta a renderti conto di quali siano le vere priorità nella vita.
    Questo è quello che mi sento di dire al momento, magari tra qualche settimana mi verranno in mente altre cose e ti scriverò di nuovo.
    Spero di rivedervi presto, perchè significherà aver pianificato una nuova partenza per l'Hopitaly Vezo, ed al momento ci sono poche cose che desidererei come quella.
    Vi abbraccio tutti.
    Marco

  • #104

    Rosso Federico (lunedì, 29 ottobre 2018 22:20)

    E’ stata un’esperienza veramente fantastica, non è facile trascrivere le emozioni, gli stati d’animo vissuti in quel periodo.
    Incomincio trattando l’organizzazione per il viaggio, l’ incontro formativo è servito molto per incominciare a capire le patologie, la cultura, l’organizzazione all’interno dell’ospedale. Lo reputo fondamentalo per il volontario per capire a cosa si va incontro.
    Durante la mia permanenza in ospedale ( circa 1 mese) mi è capitato di affrontare parecchi parti. Confrontandomi con i colleghi abbiamo notato l’aumento di queste situazioni, suggerisco se è possibile di affrontare la gestione di un parto eutocico nella giornata/e di formazione.
    Il viaggio è stato organizzato con l’ ausilio di Elena, impeccabile e puntuale nel consegnarci tutte le informazioni necessarie per affrontare nel miglior modo il viaggio.
    Dopo i tre giorni di viaggio , che tutto sommato sono andati lisci, siamo arrivati finalmente alla corte dei gechi, dove abbiamo conosciuto i volontari, Michele, Ninfa, Vito.
    La corte dei gechi è una dimora molto accogliente, ben organizzata, il personale malgascio gentile e disponibile.
    Il primo impatto è stato molto positivo devo dire ( mi definisco un ragazzo parecchio timido) ho avuto quasi subito la sensazione di trovarmi a casa, i volontari ci hanno accolto nel loro gruppo molto bene.
    Io penso che sia veramente fondamentale questo aspetto, in quanto il fatto di creare un gruppo coeso ed unito sia la forza dei volontari nei momenti di difficoltà.
    Io in particolare non ho trovato grosse difficoltà all’interno della casa con i volontari, certo ci deve essere uno spirito di condivisione e di collaborazione, caratteristiche che non sono mancate al nostro fantastico gruppo.
    Per quanto riguarda la sfera lavorativa i primi giorni non sono stati semplici dal punto di vista lavorativo in quanto si è catapultati in una nuova realtà con la necessità di adattarsi in fretta a un carico di lavoro non indifferente, a ritmi e situazioni a volte stressanti, a mezzi, strumenti, cultura, completamente differenti.
    Non ultimo mi è stato comunicato che per circa 7 giorni rimanevo l’unico infermiere (naturalmente con altre sei figure professionali), per cui sono state settimane veramente impegnative.
    Se posso dare qualche consiglio, cercherei di migliorare gli aspetti organizzativi nel passaggio fra i vari gruppi in modo tale, nel limite del possibile chiaramente, da non avere eccessiva scarsità di personale medico/infermieristico e soprattutto per affinare i passaggi di consegne e di competenze. A mio avviso consiglio l’utilizzo di semplici protocolli cosi da permettere la standardizzazione dell’uso di dispositivi ( mi viene in mente la sterilizzatrice) e l’impiego di flow chart in ambulatorio medicazioni in modo da uniformare le medicazioni al pz ( magari sul tema ustioni e piede diabetico molto presenti durante il mio soggiorno).
    Sicuramente sono tornato a casa arricchito sotto più aspetti, sia a livello professionale che umano.
    E' stata un'esperienza decisamente positiva che consiglierò ai miei colleghi infermieri in Italia.
    Un grazie di cuore all’organizzazione Amici di Ampasilava per avermi dato la possibilità di intraprendere questo viaggio e congratulazioni per il progetto che state
    Infine un ringraziamento particolare a due figure fondamentali come Ninfa e Michele, indispensabili per il corretto funzionamento dell’ospedale Vezo, veramente fantastici.
    Vi ringrazio perchè ora so cosa significa il “mal d’Africa”.
    Con profonda gratitudine. Federico

  • #103

    Marta Pettinari (giovedì, 13 settembre 2018 22:19)

    “Il Madagascar è uno dei paesi più poveri al mondo ma è una grande isola colma di sorrisi, di risate e di musica.
    A dispetto della povertà materiale, la gente malgascia è ricca perché capace di godere di quel poco che ha senza pretendere di più, perché i ritmi di vita sono scanditi dal sole e dalla luna.
    I malgasci vivono la vita giorno per giorno, non si proiettano mai nel futuro e forse è proprio questo il segreto della loro serenità. Perché credetemi, sono in pace con il mondo.
    Un mese è niente per assaporare bene la cultura di un popolo, ma in quei 30 giorni ho riscoperto la bellezza della semplicità, ho sentito la liberazione da tutte le costrizioni sociali imposte dallo stile di vita occidentale, ho re-imparato a fare una cosa se mi va di farla senza pensare troppo alle conseguenze giusto perché in quel momento mi andava di farlo. Ho ballato con loro, ho giocato con i bambini e condiviso con loro noccioline durante il tramonto, ho potuto apprezzare la freschezza del loro pesce mangiato con le mani dallo stesso piatto con altri ragazzi, la dolcezza delle frittelle ancora calde comprate in villaggio. Mi sono lasciata contagiare dalla lentezza del popolo malgascio, ritrovando i ritmi giusti per godermi ogni attimo che stavo vivendo perché quello che conta è il presente. Mi sono riempita gli occhi della bellezza mozzafiato delle spiagge e del reef, della via Lattea visibile a occhio nudo e dei baobab ma al contempo mi sono dispiaciuta perché non c’è metro quadrato incontaminato dalla plastica e dall’immondizia.
    In 30 giorni ho collaborato con gli altri volontari nell’assistere tante persone affette da patologie più o meno comuni, in un clima di collaborazione che in 5 anni di lavoro in Italia non ho mai potuto apprezzare: medici, infermieri, farmacista e mediatori culturali tutto sullo stesso livello, tutti essenziali e contribuenti alle cure dei malati. Abbiamo temuto insieme per una bambina colpita da un grave caso di malaria, ci siamo dispiaciuti insieme per un ragazzino che non potrà più camminare, abbiamo fatto nascere una bambina con gli occhi già spenti dal buio della morte.
    Non è stato facile estraniarsi dal modo di lavorare “all’italiana”, perché laggiù le cose sono completamente diverse e quindi richiedono un modo di pensare alternativo basato sulle reali necessità del paziente nel rispetto del suo stile di vita, delle sue credenze e tradizioni che può scontrarsi con i valori etici e morali del volontario.
    Ringrazio Vito, che stimo molto come persona e come collega, per essere stato un faro durante il mio periodo di volontariato, per le parole di conforto che mi hanno sollevato il morale nei momenti di crisi e per l’immenso impegno profuso nella crescita dell’ospedale e dell’associazione. Michele e Ninfa, indescrivibili, Mary ed Elvira, e tutti gli altri volontari con cui ho condiviso quella che oggi posso definire l’esperienza più bella della mia vita.
    L’ultimo giorno ho lasciato il villaggio in lacrime perché sentivo di lasciare una casa e una famiglia, e ora non passa giorno in cui io non ripensi a quell’ospedale di un piccolo villaggio sperduto sulle coste bianche del Madagascar.
    Tornerò, è una promessa.
    Veloma (Arrivederci).

  • #102

    Beatrice Mei (venerdì, 10 agosto 2018 00:05)

    L’esperienza all’ospedale Vezo del villaggio di Andavadoaka è stata indimenticabile. Inizialmente non è stato facile, ho avuto difficoltà ad entrare nella realtà dell’ospedale, ma i miei compagni e tutti i mediatori culturali sono stati di fondamentale importanza. Soprattutto Vivienne che in laboratorio mi ha aiutato tantissimo ma sapevo comunque di poter contare sull'aiuto di tutti in qualsiasi momento. La realtà della corte dei gechi, per me, è stata molto istruttiva. Oltre a condividere ogni momento della giornata con i miei compagni, si condividono esperienze personali, problemi della giornata, ma soprattutto sensazioni, belle e brutte, e nonostante tutto, anche i momenti spiacevoli sono stati superati da tutto il resto. Alla fine di questa esperienza non sarei più voluta venire via, e so di aver trovato una famiglia italiana e una malgascia. Tornerò sicuramente al villaggio di Andavadoaka. Grazie di tutto!!
    Beatrice

  • #101

    Sarah Vecchione (venerdì, 10 agosto 2018 00:03)

    2 parte
    Ho visto e sentito cuori pieni di pace e gioia anche nella difficoltà, anche nel dolore della perdita e tutto ciò ha contagiato anche tutti noi, bastava porgere l’orecchio ed essere disposti ad essere invasi dalla vita, dai ritmi, dalle tradizioni, dallo sguardo sul mondo. Laggiù ho sperimentato cosa significa davvero poter lavorare e vivere insieme, come un gruppo può affrontare lo sconforto, le delusioni, gli spigoli che ognuno di noi ha, ho sentito la felicità e la curiosità di imparare da ognuno, di affrontare insieme l’ignoto e l’incerto, di inventare insieme nuove strade. Ed è proprio vero, nel “nulla” rispetto a tutto ciò di cui disponiamo qui, nasce un fiore meraviglioso e si può fare una medicina bellissima. Non pensate di partire per andare ad insegnare, ad aiutare…saranno loro che insegneranno a voi la vita, saranno loro che vi faranno piangere, ridere, respirare, vivere, saranno loro che vi faranno sperimentare cosa davvero può essere la medicina, la fiducia, la vita e la morte. Saranno i vostri compagni di viaggio che vi arricchiranno, che vi insegneranno tante cose anche se siete professori o esperti perché da tutti davvero potrete imparare qualcosa, con le loro incredibili storie di vita e di medicina. Sarà la natura ad insegnarvi di nuovi i ritmi ed i giusti tempi, sarà il cielo ad insegnarvi nuovamente il gusto della vertigine, sarà il mare ad insegnarvi nuovamente il sapore del sale, sarà lo stregone e la vita ad insegnarvi di nuovo che non sappiamo e non controlliamo tutto. Partite pronti a farvi rimescolare, a farvi esplodere il cuore, a lavorare come mai avete fatto, a guardare come mai avete guardato, ad amare come mai avete amato. Partite sapendo che lì, la loro musica vi farà ballare una danza della vita nuova, completa, intera. Partite pronti alla difficoltà del ritorno a camminare sull’asfalto, alla difficoltà di aderire nuovamente ad uno schema di lavoro che troppe volte dimentica la sua essenza, partite consapevoli che forse, non tornerete mai più. Buon viaggio, sarà un viaggio molto più lungo di quanto possiate mai immaginare, che sia per voi il miglior imprevisto. Sarah

  • #100

    Sarah Vecchione (venerdì, 10 agosto 2018 00:02)

    1 parte
    Raccontare il Madagascar e ancor di più l’Hopitaly Vezo penso sia impresa difficile se non impossibile. Chiudete per un attimo gli occhi, sentite solo il silenzio e questa storia incredibile. Esiste un paese lontano, dalla terra rossa, dalla sabbia calda, dal verde che esplode all’improvviso, inaspettato ed impossibile, dal cielo così infinito e pieno che sembra caderti addosso. In questa terra c’è un sogno, un sogno costruito e tenuto in piedi ogni giorno da persone che donano il proprio tempo e le proprie passioni, alcuni la propria vita. Questo sogno batte ed esiste ormai da 10 anni e sempre più cresce e si trasforma, cambiando non solo le vite dei pazienti ma soprattutto le vite di tutti noi che abbiamo l’onore di poterci donare e di poterlo vivere. Immaginate un luogo dove poter veramente vivere, dove svegliarvi ogni mattina con la gioia nel cuore di chi andrà a lavorare con fatica e sudore ma ricevendo molto di più di quanto possa dare; immaginate un ospedale dove poter finalmente arrivare all’essenza più pura dell’essere medico, uomo, donna, infermiere, dove l’incontro con il paziente in fondo non richiede di dover parlare la stessa lingua perché la verità è che la comprensione si può trovare anche in lingue diverse, dove non curerete solo le persone che hanno bisogno ma scoprirete che loro cureranno molto di più voi. Immaginate un ospedale ed una nuova immensa famiglia con cui condividere ogni minuto intenso di vita, in cui la collaborazione può diventare vero scambio e vero nuovo sguardo, immaginate di farvi rompere in mille pezzi il cuore per poi scoprire che così entra molta più luce e respirate una nuova aria. Mi chiamo Sarah, sono un medico e dal primo anno in cui mi è stata donata la possibilità di vivere e rinascere in questo posto non sono più tornata. Molte volte mi sono chiesta come poter descrivere l’ospedale e la vita ad Andavadoaka, ancora oggi credo sia un’impresa molto ardua. Se state pensando di partire sappiate che state prendendo una decisione molto importante, una svolta di quelle che può cambiarti la vita. Io la rifarei cento volte, ma davvero dovreste partire consapevoli che molto se non tutto ciò che avete o meglio che siete potrebbe essere messo in discussione. Sì, perché andare ad Andavadoaka è un rischio, non siete voi che date qualcosa agli altri, molto, molto di più è ciò che riceverete e se lo vorrete questo potrà scuotervi dalle radici. Sono Sarah, la prima volta che sono partita ero appena abilitata e dalla mia professione già chiedevo di più. Lì ho per la prima volta potuto davvero ESSERE un medico, nel “nulla” rispetto all’occidente, non sono mai stata più medico di così. Non facevo il medico, lo ero ogni momento, nel più profondo e nel modo più intenso che abbia mai potuto sperimentare. In queste due esperienze ho vissuto la vita, la malattia, la morte, l’impotenza, ho potuto avere l’onore di vivere insieme al gruppo ed ai pazienti l’essere umano nella sua interezza, nella sua complessità, nella sua profondissima ed unica umanità. E sapete cosa abbiamo trovato laggiù, nel nulla, nella povertà, nella mancanza di mezzi?La gioia più sincera, la luce più abbagliante.

  • #99

    Maurizio Foco (mercoledì, 11 luglio 2018 13:05)

    Sono trascorsi molti mesi (9) da quando è finita la nostra esperienza malgascia ma la voglia di tornare, anzichè diluirsi con il tempo, sembra rafforzarsi ogni qual volta rivediamo le foto dell'ospedale e della Corte dei Gechi.
    L'utile e il dilettevole hanno caratterizzato quei 20 giorni di ottobre che che mi hanno indotto, al nostro ritorno, a segnalare l'opera di "Amici di Ampasilava" all'associazione (che lavora all'interno del mio ospedale) al fine di ottenere un finanziamento per Vezo attraverso il l Ministero; sto seguendo e seguirò la lunga burocrazia per raggiungere lo scopo perchè certo che la onlus davvero meriti un aiuto concreto.
    Dunque complimenti a coloro che hanno creato l'ospedale di Vezo nella speranza di poterci tornare.
    Auguri a tutti.
    Maurizio & Elisabetta

  • #98

    Laura Alcamisi (domenica, 13 maggio 2018 14:21)

    Ci sarebbe davvero tanto da dire, è stata un'esperienza meravigliosa.
    E' stata la mia prima esperienza lavorativa dal momento che mi sono laureata lo scorso luglio, quindi inizialmente ero molto impaurita dall'idea di dover fare il lavoro che tanto sognavo e per cui avevo studiato per anni.
    Mi sono messa in gioco all'inizio con non poche difficoltà.
    Piano piano ho acquisito fiducia e dimestichezza con il mestiere, grazie anche ai miei splendidi compagni di avventura che ho avuto la fortuna di incontrare, mi hanno sempre sostenuta anche nelle scelte più difficili che ci siamo trovati costretti ad affrontare.

    Ho avuto la fortuna di avere un medico di riferimento che si è mostrato all'altezza di ogni situazione, ed è stato in grado di guidarci dall'inizio alla fine di questa esperienza.
    Sono cresciuta molto professionalmente mettendo in pratica le mie conoscenze e confrontandole con quelle degli altri miei colleghi medici e infermieri.
    Tuttavia ritengo che l'ospedale abbia qualche pecca che penso sia da attribuire alla mancanza di continuità di medici e infermieri in ospedale. Molto spesso ci siamo ritrovati senza gli strumenti necessari che invece pensavamo di avere, ad esempio il defibrillatore non funzionava, abbiamo scoperto di avere tante piastre ma queste non erano compatibili con il defibrillatore, abbiamo trovato un cardiotocografo sotterrato tra i panni, inutilizzato da diverso tempo perché probabilmente nessuno sapeva della sua esistenza.
    Potrebbe essere un'idea se alla fine di ogni mese ciascun medico di riferimento stilasse una lista dei presidi e degli strumenti che mancano, in modo tale che i volontari dei mesi successivi possano portarli in villaggio.

    Questa esperienza mi ha dato tanto anche dal punto di vista umanitario.
    Ho avuto la fortuna di trovare un bellissimo gruppo, affiatato e unito in ogni situazione, la mia famiglia malgascia.
    Ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa che porterò sempre dentro.

    La gente del posto è meravigliosa, mi ha insegnato la semplicità delle cose.
    E' proprio vero che spesso, di ritorno da queste esperienze, è più quello che hai ricevuto di quello che hai dato.
    Io posso dire di essere tornata profondamente arricchita sotto tutti i punti di vista e per tale motivo tornerò sicuramente per dare un aiuto non appena potrò.

    Vi mando un sincero saluto e vi ringrazio per l'opportunità che mi è stata data nel venire ad aiutarvi.

  • #97

    Caterina Apruzzese (domenica, 18 marzo 2018 15:50)

    Tra le tante cose, ti colpiscono le famiglie. Arrivano da lontano e sono sempre numerose. Mi immagino che per loro sia come organizzare una specie di viaggio: devono mettere da parte i soldi per il cibo e per il taxi-brousse se possono permetterselo, o caricare tutto sul carretto trainato a passo d’uomo da magrissimi zebù. Viaggiano per giorni attraverso la foresta o trasportati dal mare, per chi arriva in piroga. Per una medicazione, un controllo gravidanza, per ritirare i farmaci per la pressione, o perché lo sciamano del villaggio non ha saputo guarirli. Se è necessario un ricovero, ricoveriamo l’intera famiglia. Sarà il figlio che darà mangiare al padre, la moglie che farà i massaggi al marito, la nipotina che aiuterà il nonno a lavarsi. Se non fosse per noi, i parenti qui non se ne andrebbero mai via, nemmeno alla notte. Avvolti in un lamba colorato dormirebbero al fresco sotto i fiori rossi del Flamboyant nel cortile dell’ospedale o nello stesso letto dell’ammalato.

    Giocano, si pettinano, ridono, chiaccherano tra di loro. Aspettano pazientemente per ore senza mai lamentarsi. E poi, così come sono arrivati, ripartono.

    Il lavoro insieme agli altri volontari è tutto. Discutere di come alimentare un disfagico senza un frullatore (nelle capanne non c’è l’elettricità) seduti sul divano in pelle di quella che ormai è la tua casa, o cercare di trovare una soluzione per quei diabetici di tipo 1 che non hanno il frigorifero per l’insulina e per i quali l’alimento principale è il riso, con quelli che sono i tuoi colleghi, amici e anche la tua famiglia, magari davanti a una birra dopo una mega scorpacciata di ricci di mare.

    Chi sa fare fa, chi si mette in gioco impara. Senza rigide distinzioni di titoli, senza paura di condividere ciò che sappiamo con i colleghi meno esperti. Il nostro ospedale è come un piccolo gioiello e chi ci ritorna, non può fare a meno di trattarlo come tale. Con rispetto e impegno continuo per conservare e migliorare quello che è stato fatto fino a quel momento. Grazie a tutti i volontari che ho incontrato che mi hanno passato il loro amore per questo posto.

    Ci sono tante, tantissime cose ancora da migliorare, ma anche tante persone che ci mettono l’anima perché succeda ogni giorno. E con tutto quello che devo a questo posto, non posso che sentirmene parte!

    Caterina, 24 anni, infermiera









  • #96

    Caterina Apruzzese (domenica, 18 marzo 2018 15:47)


    11 mesi fa, quando ho messo piede per la prima volta nel piccolo ospedale Vezo nel villaggio di pescatori di Andavadoaka, circondato da una foresta di spine e grossi baobab da un lato e dal canale del Mozambico dall’altro, mai avrei immaginato che quell’esperienza in così pochi mesi avrebbe cambiato la mia vita.

    Ora sull’aereo di ritorno per Bologna è come se tutti i ricordi di cui ho memoria in questa vita siano lì, tra i tramonti lilla e il mare rosa, i sorrisi bianchi di pescatori, i medici e gli infermieri con cui ho lavorato, i bambini saltellanti che ti rincorrono per regalarti conchiglie in cambio di biscotti.

    Laggiù, ho imparato a distinguere su uno schermo in bianco e nero occhietti, nasini e manine dei piccoli girini che avremmo fatto nascere. Alle due della notte, con la sola luce della torcia del telefono e dei raggi della luna ho allestito la sala operatoria per un cesareo sperando che il chirurgo arrivasse in tempo. Non scorderò mai la mia prima notte di guardia in ginocchio su un angolo di letto sgualcito a ventilare quella ragazza che era arrivata lamentando un banale bruciore al catetere e che se ne è andata a neanche trent’anni tra le mie braccia alle prime luci dell’alba, mentre il medico e il mio collega di guardia rianimavano un neonato nella stanza accanto. Arrampicata su una scaletta di legno, sono rimasta incantata a guardare dall’alto delle scialitiche come in sala operatoria si salvano vite senza parlarsi, senza mangiare né bere per ore, coordinando ogni movimento con la grazia di una danza e con sguardi carichi di concentrazione, sicurezza e determinazione.

    Ho visto davvero fare tutto il possibile, ma anche tanta dignità nel lasciare andare.

    Un ospedale all’aperto, dove i pazienti arrivano scalzi coi piedi sporchi di sabbia, dove i volti rilassati e sorridenti non sono solo quelli dei malgasci ma anche quelli dei tuoi colleghi, dove c’è continuo scambio, confronto, dove si corre, ma anche si ride e tra una visita e l’altra si gioca a nascondino coi bambini che sono ovunque, anche in ospedale. Qui ho imparato a usare il microscopio da un farmacista, a mettere i punti a da un chirurgo malgascio, ho chiesto aiuto in Italia alle tre della notte a un ginecologo e insieme abbiamo fatto partorire una donna. Qualche mese dopo avrebbero telefonato a me la sera della viglia di Natale, il giorno dopo e la settimana dopo ancora…

    I nostri pazienti non sanno come siamo fatti dentro, dove si trovano lo stomaco o l’intestino, e molto spesso non sanno nemmeno quanti anni hanno! Ma sanno orientarsi col sole e vedere nel buio alla luce delle stelle, conoscono i venti e sanno governare il mare. Come loro in ospedale si affidano a noi totalmente, così noi facciamo lo stesso quando saliamo su una piroga che attraverserà un (seppur piccolo) pezzetto di oceano.

  • #95

    Laura Turetta (venerdì, 17 novembre 2017 18:26)

    Se ripenso all’esperienza in Madagascar mi sovvengono subito molte emozioni.
    A partire dal lungo e avventuroso viaggio con i vari scali (10 ore circa da Parigi ad Antananarivo e il volo interno da Antananarivo a Tulear), il veloce giro nella povere Tanà e Tulear, il percorso verso Andavadoaka di circa 8 ore in jeep (sempre se non succedono inconvenienti alla macchina!) fra la foresta spinosa, la costa, il mare, la foresta di baobab ed i vari “sballottamenti” fra le dune di sabbia è sì stancante, ma davvero unico.
    Alla corte dei gechi si ha tutto ciò di cui si ha bisogno: camere spaziose, acqua calda, possibilità di far lavare i vestiti, cibo buono e abbondante.
    Certo ci vuole un sano spirito di adattamento all’ambiente nuovo, alla sabbia che si intrufola in ogni dove, alla vita in comunità.
    Per quanto mi riguarda i primi giorni non sono stati semplici sia dal punto di vista lavorativo che personale in quanto si è catapultati in una nuova realtà con la necessità di adattarsi in fretta a un carico di lavoro non indifferente, a ritmi e situazioni a volte stressanti, a mezzi, strumenti, cultura, qualità di vita e abitudini completamente diversi dai nostri. Tutto ciò ha suscitato fin da subito importanti riflessioni.
    E’ stato molto bello e gratificante potersi confrontare con colleghi sempre disponibili e con patologie a noi meno note ed inoltre, mi sono meravigliosamente stupita di trovare persone grintose, collaborative, armate del giusto spirito per affrontare il lavoro in ospedale e la vita nella corte.
    Se posso dare qualche consiglio, cercherei di migliorare gli aspetti organizzativi nel passaggio fra i vari gruppi in modo tale, nel limite del possibile chiaramente, da non avere eccessiva scarsità di personale medico/infermieristico e soprattutto per affinare i passaggi di consegne e di competenze.
    Per me si è trattata della prima esperienza umanitaria e quindi non ho termini di confronto ma, in conclusione, posso dire che il bilancio è assolutamente positivo.
    Ringrazio Amici di Ampasilava per avermi dato la possibilità di intraprendere questo viaggio e di apprendere molto dal punto di vista professionale.
    Al termine delle 4 settimane trascorse all’Ospedale Vezo avevo voglia di rivedere casa ed ora, a distanza di neanche un mese dal mio rientro, ho già quasi voglia di tornarci.

  • #94

    Carla Cuboni (domenica, 05 novembre 2017 19:37)


    È passato un anno dalla mia prima esperienza in Madagascar
    Mi ricordavo tutto dal viaggio estenuante per arrivare , alle giornate in corte e in ospedale
    Appena arrivata ho percepito subito un luogo familiare, la mia casa , un ritorno, anzi di non essere mai andata via.
    Eppure tante cose sono cambiate
    Dalla nuova farmacia agli ambulatori, il nuovo acquedotto , la ristrutturazione della corte
    Il lavoro in ospedale è stato duro, forse condizionato dalla presenza della chirurgia e dall 'ostetrica che hanno aumentato il numero dei ricoverati e il numero di nascite , anche difficili.
    Sono andata via stanca ma soddisfatta anche per tanti casi difficili e spesso risolti.
    Potevo fare di più? Sicuramente, ma ho cercato di fare ciò che potevo.
    Ho incontrato diversi compagni di viaggio e in linea di massima abbiamo lavorato in sintonia e affiatamento
    Tante cose si potrebbero migliorare, molto dipende dai volontari ma anche dalla organizzazione .
    Una gestione più accurata dei turni dei volontari così come la presenza costante di un chirurgo , che se andrà via Ross, sarà sicuramente un problema
    Infine , voglio ringraziare Mary per la sua accoglienza e considerazione. Un abbraccio
    Carla

  • #93

    Leonardo Matucci (domenica, 05 novembre 2017 19:30)


    Ho volutamente atteso un pò di tempo prima di inviarvi le mie impressioni sull'esperienza che ho avuto all'ospedale Vezo nello scorso mese di Settembre aspettando di far decantare ricordi, impressioni e vissuti in modo tale che il mio giudizio fosse il meno possibile influenzato dalla emotività. Non starò certamente a dirvi della bellezza dell'esperienza da un punto di vista umano non tanto perché obiettivamente scontato quanto piuttosto perché ritengo che questo aspetto appartenga alla sfera del privato e che nel privato di ognuno di noi che facciamo un'esperienza simile deve rimanere. Parlerò invece di questo mese all'ospedale Vezo dal punto di vista tecnico se così vogliamo dire focalizzando l'attenzione sulle attività sanitarie svolte durante il mio soggiorno. A questo proposito devo confessare che, soprattutto nei primi quattordici giorni in cui eravamo in cinque ( quattro infermiere e un medico) l'impegno richiesto è stato veramente gravoso sia da un punto di vista fisico sia da quello psicologico e sinceramente mi sono sentito inadeguato, io unico medico presente in struttura, a far fronte alle esigenze delle persone che vi afferivano e che, va sottolineato, ripongono una grandissima fiducia nei confronti del personale tutto che è presente in ospedale. Proprio questa grandissima fiducia, ripetutamente dimostrata dalle persone che giungono all'ospedale spesso dopo giorni di viaggio che definire disagiato è un eufemismo e forse quasi un'offesa per chi lo compie, è stata per me motivo di una riflessione sulla qualità del servizio offerto e talora il senso di inadeguatezza è stato molto forte. Ecco penso che una preparazione qui in Italia prima della partenza più attenta e completa sarebbe di sicura utilità per i futuri nuovi volontari. Purtroppo poi alla carenza di personale che ha caratterizzato il periodo del mio soggiorno si sono aggiunti altri problemi importanti, innanzitutto è venuto meno l'apparecchio degli esami ematici, dell'emocromo, in particolare, che fin da subito si è rivelato del tutto inattendibile e che spero sia stato sostituito e una carenza importante di farmaci specie per la terapia dell'epilessia ma importanti problemi abbiamo avuto anche nel trattamento dei pazienti diabetici nonché nell'impostazione dell'antibioticoterapia in alcuni degenti per la carenza di antibiotici iniettivi: ritengo che l'approvvigionamento dei farmaci sia un problema importante per l'ospedale almeno sulla base della mia esperienza. Altro problema importante che va posto all'attenzione dei volontari è la necessità, direi fondamentale, di avere una conoscenza di base sì ma non approssimativa della tecnica ecografica proprio per migliorare la qualità delle prestazioni offerte alle persone che con fiducia commovente giungono in ospedale. Infine concludo con una notazione scontata e assai nota : la necessità della presenza di un chirurgo e di una ostetrica di riferimento stanziali in ospedale; in tutto il mese di Settembre il chirurgo è stato presente non più di 5-6 giorni il che fortunatamente ha permesso di eseguire una appendicectomia in urgenza ma ha creato seri problemi nella conduzione dell'attività ospedaliera.
    E a questo punto sono io che ringrazio l'Associazione per l'opportunità che mi ha dato di vivere questa esperienza di vita così totalizzante e così appagante nella speranza di poterla ripetere in un prossimo ma vicino futuro.
    Grazie di tutto .. veramente di cuore
    Leonardo Matucci
    P.S. un ringraziamento non di maniera, non dovuto ma fortemente sentito va a Eleonora, Lucia e Martina che si sono rivelate, prima e al di sopra di ogni altra considerazione, persone bellissime. Un abbraccio a tutte e tre

  • #92

    sara taddia (sabato, 07 ottobre 2017 17:02)


    Sono Sara, infermiera di 30 anni, quest'estate durante il mio periodo di ferie, sono stata per 3 settimane in Madagascar, nel villaggio di Andavadoaka.
    Avevo sempre sognato di fare un'esperienza di questo genere, ma lavorando era difficile trovare un' organizzazione che ti accettasse per così poco tempo invece, con Amici di Ampasilava invece, sono riuscita a partire e a rendermi utile.

    L'esperienza è stata bellissima, molto più ricca di emozioni di qualsiasi vacanza, si lavora ma si affronta tutto in gruppo, ponendosi dubbi e problemi insieme alla pari, tutti con lo stesso obiettivo. Qui non ti senti un numero, ognuno viene preso in considerazione.
    Il fine ultimo è il benessere delle persone, si cerca di fare il possibile coi mezzi disponibili, spesso si deve scegliere e prendere decisioni difficili in base alle risorse disponibili, ma sempre valutando la situazione insieme.

    Il mio lavoro di infermiera ruotava con altre colleghe tra la degenza, gli ambulatori di visita e l'ambulatorio medicazioni, decidevamo la mattina stessa come dividerci,come ruotare e chi affiancare; nei primi giorni sono stata affiancata e poi per dubbi ho sempre trovato un supporto.
    Si lavora accanto a traduttori locali, medici infermieri italiani e un chirurgo e un'ostetrica locali, ma è in corso la formazione di infermieri malgasci.
    La vita nella corte dei gechi rispecchia la sintonia che poi si ritrova nel lavoro in ospedale, si vive insieme, si condivide e si creano legami molto facilmente.
    La soddisfazione che si prova ad aiutare questo popolo è grande e lavorare accanto alle persone che ho conosciuto è stato un privilegio.
    Io mi sono subito sentita a casa, accolta da una grande famiglia, mi hanno subito fatta sentire parte di qualcosa, qualcosa di grande, più grande di ciascuno di noi, ed è stato meraviglioso farne parte, portare avanti questo bellissimo progetto, che si allarga e che migliora di anno in anno.

    Il Madagascar si rivela lentamente, dopo un lungo viaggio, osservando i continui cambi di paesaggio e di volti, passando da una città all'altra, si arriva in jeep al villaggio di Andavadoaka, dove l'oceano fa da sfondo alle capannine di legno, dove gli sguardi sono sempre seguiti da un sorriso timido e curioso, dove al tramonto si accendono le luci dei fuochi e la gente si raccoglie intorno fra mille odori.
    Piano piano trovi i tuoi luoghi nel villaggio, le abitudini, gli sguardi i gesti dei malgasci diventano intuitivi, la sabbia sotto i piedi un'esigenza e il buio di notte sotto il cielo stellato, una magia per gli occhi.
    Ci si abitua stranamente troppo in fretta a questa vita, ricordo di vita ancestrale...a questa questa terra non manca niente, ma sa mancare molto al ritorno invece.

    Forse questo viaggio è stata una mia necessità, sono partita con la volontà di rendermi utile e quindi sentirmi anche importante, ma ho ricevuto tanto, tantissimo, più di quel che ho dato, per questo probabilmente ho bisogno tornare..
    grazie a tutti voi, che portate avanti questo bellissimo progetto, vi ammiro molto!
    spero di poter ritornare presto

    Sara Taddia

  • #91

    Giulia Iannone (venerdì, 06 ottobre 2017 23:02)

    Sono una studentessa di medicina alla vigilia del sesto anno di studi. Quindi ormai il peggio è passato (si fa per dire…). Quando ho deciso di partire per il Madagascar ero consapevole del fatto che sarebbe stato il mio unico mese di vacanza, fra la sfinente sessione di luglio e l’imminente sessione di settembre. Non so esattamente cosa mi aspettassi, però so che cosa ho trovato. Ho ancora negli occhi e nella mente il travolgente entusiasmo dei primi giorni ad Andavadoaka: la processione delle persone verso l’ospedale la mia prima mattina di lavoro, la sala d’attesa sulla sabbia, le prime stentate parole “mandea munto sua? Mamami sua?”, i pranzi e le cena in quella lunghissima tavola, la difficoltà di memorizzare tutte quelle nuove informazioni. Ognuno aveva una sua competenza (medico, infermiere, ostetrica) seppur da esercitare in un contesto completamente diverso rispetto a quello italiano. Io non avevo nessuna competenza; vengo da 5 anni di puro studio, seduta davanti a un libro per ore e ore, poche pause, tantissime nozioni. Ho fatto qualche tirocinio al S. Orsola in cui ho giustamente guardato (a distanza di sicurezza) medici e specializzandi visitare pazienti, ho misurato due o tre pressioni, messo gli elettrodi dell’ECG. Ritrovarmi ad Andavadoaka per me è stata una sfida enorme. Mi sono trovata a dover imparare qualsiasi cosa, pratica e non (dal fare una intramuscolo a togliere i punti; da fare un test per la sifilide a come trattare una emorragia acuta; dal mettere un catetere a monitorare il battito fetale). Insomma, è stato lavoro vero: dalle 8 di mattina alle 2 di pomeriggio, le guardie, le domeniche, Pasteur che bussa alla porta in piena notte e poi le emergenze, i pomeriggi in cui ci si trova tutti in ospedale per un ragazzino punto dal pesce pietra o le serate passate a far nascere neonati. Devo ammettere che ci sono stati momenti duri, che una studentessa non corazzata come me ha fatto molta fatica da affrontare, sia dal punto di vista fisico sia da quello professionale sia da quello emotivo/umano. Però ho imparato davvero tantissimo, ho conosciuto dei medici che sono diventati per me dei modelli e dei punti di riferimento. Carla, con la sua passione e energia inesauribile, fin dal primo giorno (dopo che si è ripresa dallo shock che non sapessimo fare nemmeno una intramuscolo) ha cercato di trasmetterci un po’ del suo sapere, ci chiamava a gran voce tutte le volte che c’era qualcosa di interessante e ci spronava a fare qualsiasi cosa. Eugenio, l’anestesista, è una persona estremamente disponibile con una calma e una chiarezza invidiabili (ha avuto anche il coraggio di farmi fare una spinale). Flaminia, la gastroenterologa, mi ha messo la sonda ecografica in mano e mi ha detto ‘ prova tu’, si è sempre assicurata che capissi e condividessi le scelte terapeutiche, mi ha stimolato a dare le mie risposte. E poi Giovanni, il mio chirurgo, che mi ha sempre sostenuto, spinto a non avere paura, abbracciato e fatto ridere quando ne avevo bisogno. Nonostante il clima frenetico e le innumerevoli emergenze, tutti si assicuravano sempre che capissi, che imparassi, che facessi esperienza. Sempre misurati, disponibili, pronti a consultarsi, a scambiarsi pareri (momenti in cui si era in 7 davanti a un ecografo per valutare un paziente) e ancora intellettualmente e “medicamente” curiosi, pronti a correre per ogni emergenza. Davvero dei modelli. Anche le infermiere (Ninfa e Cate) e l’ostetrica sono state estremamente pazienti con me: mi hanno insegnato a mettere cateteri, a prendere vene, a fare prelievi , a togliere punti e tanto, tanto altro. Per me è stata un’occasione unica per apprendere, ma non solo… Porto al dito l’anello ricevuto da una paziente a cui ho donato il sangue, negli occhi ho ancora lo sguardo perduto di una bimba appena operata che vuole solo la sua mamma, nel cuore rimane il sorriso della donna che ha appena partorito due bellissimi gemelli. Sono certa che questa esperienza mi abbia lasciato moltissimo dal punto di vista umano: sia per le persone incontrate, sia per gli splendidi rapporti instaurati, sia per il lavoro di equipe, sia per le vite salvate. Sono profondamente grata per la possibilità che mi è stata data e spero davvero di poter tornare il più presto possibile nell’ospedale sulla sabbia.


  • #90

    Marina Monteferri (giovedì, 05 ottobre 2017 14:56)

    Sono stata in missione all'Ospedale di Vezo per circa tutto il mese di agosto 2017, solo ora riesco a scrivere. Sono tornata molto appagata dall'esperienza, mi sono sentita dentro un bagaglio di emozioni e di pensieri che hanno riempito totalmente cuore e mente e che mi hanno fatto sentire come se fossi stata dentro un enorme frullatore. Però ne è uscito sicuramente un buon frullato! Solo che i singoli elementi dell'esperienza sono talmente tanti che ancora ci devo lavorare: innanzitutto la popolazione malgascia, che avevo già conosciuto in un precedente viaggio in Madagascar, ma che in questa occasione mi è entrata dentro in modo forte e diretto. Il disagio, l'avere il nulla (è molto di più della povertà), le condizioni di vita e di salute mi hanno lasciato attonita, come si può vivere così? Eppure vivono ma stanno anche molto male, alcune malattie sono assurde per noi. Mi ha colpito il loro rapporto con la malattia, la morte e con il tempo, soffrono come noi ma è come se tutto fosse diluito in uno scorrere fluido che non ha inizio e fine, che segue il flusso della vita e che loro accettano senza tante storie. Tutti i parametri su cui noi basiamo la nostra vita sono immediatamente sovvertiti e messi in discussione, all'inizio osservi in silenzio, ma man mano dentro di te sorgono sensazioni che non sai subito capire ma che poi esplodono e ti mettono duramente a confronto con te stesso. E' una esperienza innanzitutto personale, che porta cambiamenti molto profondi nel nostro essere. Altro elemento è stato la comunità dei volontari: molti giovani, aperti, con una motivazione straordinaria, presi totalmente dal loro lavoro, davvero bravissimi e generosi, lavoravano tutti senza sosta e con molta competenza! Anche i meno giovani hanno dato il massimo, i medici sempre in attività tra sala operatoria e nel seguire i pazienti a tutte le ore, le persone di riferimento dell'organizzazione sempre pronte a risolvere qualsiasi tipo di problema. La casa dei volontari è accogliente, ben gestita, un vero e proprio "rifugio" dove riposare e scambiare le esperienze. Ringrazio davvero tanto Laura, sempre disponibile, presente, affettuosa e con una energia inesauribile nel seguire le numerosissime attività della casa, Vio la cui presenza è stata di una solidità e di un equilibrio utile per tutti, Vito che preso da mille attività costituiva un riferimento indispensabile. Ringrazio Josephine e le altre signore che accudivano tutti nei pasti (ottimi), nei lavori della casa, Dera sempre pronto a rispondere alle varie richieste, i traduttori sempre presenti e disponibili. Il mio lavoro è stato valutare i bisogni informativi dell'ospedale per un miglioramento dell'attuale gestione organizzativa ed informatica (non ho una qualifica sanitaria, ho sempre lavorato in sanità occupandomi di organizzazione e gestione), poi ho fatto quello che serviva e che mi è stato richiesto come lavare i ferri chirurgici e sterilizzare camici e teli, ho vissuto molto del mio tempo nella stanzetta della sterilizzazione vicino la sala operatoria, con il continuo via vai di pazienti, con la presenza costante dell'equipe chirurgica che lavorava a ritmi davvero intensi. Anche se, come sempre, molto ancora si può fare per migliorare l'organizzazione, si percepisce chiaramente tutto il lavoro che c'è stato per costruire questa realtà così importante e preziosa per il popolo malgascio ma anche per i volontari, per tutti noi. Grazie e arrivederci!

  • #89

    Ivonne Paganelli (mercoledì, 06 settembre 2017 13:20)

    Sono un odontoiatra , ho fatto una missione di un mese all’Ospedale Vezo . Ringrazio Voi tutti per avermi dato questa opportunita'..
    Non posso che ribadire che è stata una esperienza decisamente molto positiva , sia dal punto umano , che professionale.
    Mi soffermo un po ' sulla mia esperienza professionale, in modo che tutti possono capire la situazione odontostomatologica della zona, e riuscire il piu’ possibile a prestare un servizio utile ed efficente a piu’ persone possibili.
    Dopo il primo smarrimento, per l organizzazione ed efficienza dell'ambulatorio , e i bisogni di questa gente, ho cercato di organizzarmi, per ottimizzare tutto con i mezzi a dispozizione..
    I bisogni della popolazione in questa specialita' sono immensi.
    Lo dico anche per i colleghi che in futuro vorrano venire a prestare il loro servizio.
    La maggior parte del mio lavoro è consistito in estrazione dentarie, perchè ormai troppo tardi per riuscire a recuperare dei denti con carie distruente, molti non sapevano neanche che i denti si potessero curare, un po' di conservativa, dove possibile sono riuscita a farla.
    Ho tolto denti di tutti i tipi in particolare denti del giudizio.
    Un altro grande problema, è la ricostruzione di denti , in prevalenza incisivi , canini e premolari, decalcificati, e gia' cariati, sopratutto di giovani, sicuramente c'è un problema di squilibri di apporto di minerali, forse dovuto alle acque, e al fluoro, mi sono ripromessa di verificare meglio , per vedere se è possibile una prevenzione, perchè il problema è molto frequente e rilevante; quelli che si sono presentati sono stati tutti curati, con grande soddisfazione dei pazienti.
    L'aspetto spesso cosi bianco dei denti di questa popolazione è dovuta di base ad una decalcificazione , che rende il dente piu bianco, ma molto piu recettivo alle carie, e meno sano.
    Sono frequenti anche gli ascessi e granulomi, dovuti a carie distruente, in alcuni casi, questi ascessi si sono trasformati in flemmoni e fistolizzati all'esterno.
    Porto ad esempio una ragazza venuta da non so da quanti chilometri, e accampata fuori dal ospedale, con un flemmone , fistolizzato , dietro l ' orecchio, non apriva , a causa del trisma la bocca , dopo 10 giorni di antibiotico, finalmente ridotta l' infezione acuta, e il trisma, all apertura della bocca , aveva una ipertofia gengivale che dalla zona del dente del giudizio arrivava ai premolari, dopo un intervento, di asportazione gengivale e suturata, finalmente il giorno dopo è apparso un dente del giudizio completamente cariato e necrotico.
    Dopo una lastra per valutarne le radici, devo dire con grande titubanza da parte mia , mi sono decisa all'estrazione.
    Ero spaventata, a Bologna L’avrei inviata all'ambulatorio della chirurgia maxillo-facciale, ma lì non avevo questa possibilita', la ragazza aveva finito i soldi e il giorno dopo sarebbe dovuta ritornare al suo paese. L'nfezione era risolta, ma rimanendo in sede il focus che l aveva provocata sarebbe potuta ritornare. e non aveva alternative. Mi sono decisa ad intervenire con veramente grande timore.
    E' andatto tutto bene!!!!!! In verita',questa popolazione ha un paradonto, non sano, per cui le estrazione sono relativamente semplici.
    L' ambulatorio è abbastanza efficente, ma visto il lavoro , sarebbe molto importante una aspirazione superiore, cioè un compressore piu potente, in modo che tutto il lavoro chirurgico sia semplificato, poi piccole altre migliorie, non difficili da fare.
    L' esperienza umana è stata fantastica, e sono stata felice di conoscere tutti, e di ammirarli per l' impegno e la disponibilita’ verso questa sfortunata popolazione, fra i piu’ poveri del mondo.
    Spero di riuscire a ritornarci l’anno prossimo, sono sicura che saro' ancora piu utile, e mi mettero' in contatto con dei prof. universitari affinche' possano inviare specializzandi anche all' Ospedale Vezo.
    Grazie infinite a tutti
    Complimenti per il Vs. fantastico lavoro
    Ivonne Paganelli

  • #88

    Mary Benedettini (martedì, 05 settembre 2017 17:53)

    A tutte le persone che ho incontrato in questi due mesi

    Voglio ringraziare tutti VOI per aver condiviso questa realtà, con alcuni un tempo più lungo , con altri per un periodo più breve, ma con ognuno con intensità.
    Le esperienze come la vita assumano significati rispetto a cosa ne facciamo di esse .
    Questa esperienza è un po’ come il vento , se sai seguirla ti porta dove vuole, se sai imbrigliarla ti spinge avanti. Eccoci qui, in questo luogo remoto dove ognuno lascia a testimonianza le proprie tracce con qualcosa di comune nelle diversità di ognuno di noi , nelle specificità dei vissuti e degli incontri che ognuno ha sperimentato.
    Questa esperienza è un po’ come il sale , come le spezie, cambia il sapore di tutto ciò che tocchi , ti lascia profumi e fragranze impigliate nel cuore. Come spesso dite è qualcosa che non si può prevedere. Così ogni giorno possiamo incontrare nuovi amici e così di ogni stella posso diventare ospite e amica.
    Un po’ tutti per essere qui ci siamo allontanati dal porto sicuro e abbiamo mollato le cime. Vi auguro di affrontare sempre i venti con le vostre vele per continuare a sognare, esplorare, scoprire.
    Niente può cancellare le orme che questa esperienza ha lasciato in noi ; per questo non finisce . Accanto a questo traccerete nuovi percorsi, nuovi cammini. Sempre ricominciamo il nostro viaggio.
    Auguro a tutti Voi di tornare con questo mondo nel cuore .
    Spesso mi sono ritrovata a riflettere su vostri input, penso che questa sia una scuola di umiltà , grazie per avermi fatto toccare i limiti della mia comprensione , la precarietà degli schemi che mi sono portata dietro.
    Ogni volta mi rendo consapevole che questo cammino può essere una miniera, forse basta seguire il bandolo di una matassa che possiamo cogliere in un sorriso , in una parola, in un incontro dentro e fuori l’ospedale , nel contatto con la natura e allora questo luogo, questa terra, diventa lo specchio di un nuovo mondo.
    Una finestra sulla vita, un teatro di nuova vita dentro il quale ci si potrebbe fermare , senza il bisogno di andare altrove .
    Grazie a tutti.

  • #87

    Carla Collina (venerdì, 01 settembre 2017 08:40)

    Grazie a voi, all'associazione, a Mary e Vito che mi hanno sostenuto in ogni momento. Per me è un onore e soprattutto un piacere continuare a dare il mio tempo ( anche se vorrei averne di più!!) all'ospedale Vezo e al popolo malgascio. Quest'anno è stata la mia quarta missione e come ogni volta torno a casa con la voglia di ripartire e con un bagaglio di emozioni e soprattutto con una crescita professionale che mi rende sempre più forte. Non nego che questa volta prima di partire ero un po' preoccupata per il fatto che mi sarei trovata a lavorare con persone che non conoscevo. Il lavoro in sala operatoria è molto particolare, è un lavoro di vera equipe e se non c'è armonia e grande collaborazione potrebbe risultare molto pesante. Per fortuna le mie preoccupazioni sono svanite appena ho conosciuto il gruppo con cui avrei condiviso questa esperienza. Ho avuto un grande aiuto da parte di tutti nel riordino della sala operatoria, ormai quasi ai livelli italiani. Posso dire che in questi ultimi anni sono stati fatti dei grandi lavori di miglioramento, sia strutturali che per quanto riguarda le apparecchiature e le strumentazioni, e questo ci rende sempre di più in grado di affrontare anche interventi importanti. Come tutte le altre volte anche quest'anno il lavoro è stato tanto e senza orari, ma di grande soddisfazione. Finché potrò sarò felicissima di continuare a dare il mio apporto all'associazione, all'ospedale vezo e alla sala operatoria ( mio grande amore)! Grazie ancora a voi!!

  • #86

    Giorgio Turati (mercoledì, 10 maggio 2017 19:05)

    Ho aspettato qualche giorno a scrivere questa relazione per riordinare le idee e per lasciare che le emozioni si assestassero.
    E' stata la mia prima esperienza di volontariato in un paese in via di sviluppo, pertanto sono partito con la mente aperta a qualsiasi scenario mi si fosse presentato davanti.
    Per quanto riguarda la vita nella corte devo dire che mi sono trovato molto bene e mi sono integrato fin da subito; l'organizzazione era molto efficiente, la sistemazione confortevole e i pasti abbondanti. Ho apprezzato molto la vita in comunità, poichè dava sia la possibilità di passare tanti momenti di convivialità gradevoli sia di ritagliarsi momenti di tranquillità e riflessione personali.
    Per quanto riguarda l'ospedale diciamo che sono partito con l'idea di adeguarmi a qualsiasi condizione lavorativa; ho impiegato qualche giorno ad allinearmi al modus operandi, al riciclo e alla parsimonia ossessivi delle risorse, al numero limitato dei dispositivi a disposizione.
    Lo scoglio più grosso che ho dovuto superare è stato adeguarmi alle condizioni igieniche, in questo diciamo che ho avuto bisogno di qualche giorno in più.
    Credo che il periodo minimo di rodaggio per raggiungere la mentalità e lo spirito giusto sia di due settimane, pertanto credo che effettuare un periodo di permanenza inferiore al mese abbia poco senso, ovviamente per quanto riguarda figure professionali come la mia.
    Durante la mia permanenza ho realizzato che la cosa più difficile secondo me non è l'approvvigionamento delle risorse, dei farmaci e delle attrezzature, ma garantire la presenza costante di figure indispensabili quali chirurghi ed ostetriche, al fine di dare una continuità assistenziale alla popolazione.
    Io non ho idea se sia possibile formare personale locale (modalità,tempi e costi) in modo da avere una collaborazione costante e continuativa 365 giorni all'anno, però a mio giudizio sarebbe da valutare come opzione.
    E' molto difficile inserirsi in punta di piedi tra le maglie del tessuto culturale e cercare di educare senza offendere e senza risultare invadenti, però forse è l'unico modo per poggiare le basi per una collaborazione bilaterale. Su questo punto a mio giudizio l'associazione sta lavorando bene.
    Ho sentito che in cantiere c'è un possibile ampliamento della struttura, il mio umile parere è che forse conviene potenziare quello che già c'è, però non conoscendo i retroscena la mia rimane una semplice osservazione.
    Sicuramente sono tornato a casa arricchito sotto più aspetti, sia a livello professionale che umano.
    E' stata un'esperienza decisamente positiva che consiglierò ai miei colleghi medici e infermieri in Italia.
    Ho trovato l'organizzazione del viaggio molto precisa ed efficiente.
    Vi ringrazio molto per avermi dato questa possibilità e spero di collaborare con voi nuovamente in futuro
    Giorgio Turati

  • #85

    Flavio Maina (sabato, 18 marzo 2017 21:50)

    Ho lavorato presso il vostro ospedale nel mese di gennaio e nella prima settimana di febbraio.
    La realtà sanitaria che ho conosciuto è molto importante per la salute e per la stabilità dell'organizzazione sociale di villaggi in cui ho visto le difficoltà del sopravvivere. Il mio giudizio sulla mia esperienza è positivo sia dal punto di vista sanitario che di quello dei rapporti interpersonali.
    Il giudizio positivo supera di gran lunga la mia perplessità sulla conduzione medica di alcuni episodi sul cui merito non ho voluto entrare per non creare problemi ad un gruppo di giovani coeso ,entusiasta e giustamente portato a valutare come vangelo l'opinione di chi dedica una vita all'ospedale. Oltretutto si può evitate di dare giudizi negativi su decisioni prese da chi ci ha preceduti e che talora per la fretta e per il troppo fare non sono state motivate in cartella.
    Penso che sia importante per chi arriva anche il riferimento a figure non sanitarie che sono di aiuto per il funzionamento del gruppo e dell'organizzazione.
    Durante la mia permanenza ho conosciuto persone per me molto stimolanti sia in campo sanitario sanitario che amministrativo, giovani e meno giovani che mi hanno permesso di superare le difficoltà dell'impatto iniziale ,talora anche relazionali.
    Preferisco il breefing dopo la pausa del pranzo, più sintetico con più possibilità di confronto. Quello prima di cena con l'analisi di tutti i passaggi ambulatoriali mi pare meno produttivo.
    Lo sforzo organizzativo è notevole e vi auguro la possiate proseguire .
    Buon lavoro e grazie per l'accoglienza
    Flavio Maina

  • #84

    Andrea Nuvoloni (sabato, 18 marzo 2017 21:20)

    Salve Amici di Ampasilava. Sono Andrea Nuvoloni di Verona; tecnico Carestream-ex Kodak dell'agenzia Biotron di Budrio - Bologna.
    Sono stato all'ospedale Vezo dal 23 ottobre al 4 novembre.
    Sono stato contattato da Federico il tecnico di radiologia tramite la mia ditta per installare e sistemare i 2 CR (computer radiologici) presenti nell'ospedale. Sono un tecnico manutentore ed il mio compito era quello di far ripartire ed organizzare al meglio la radiologia.
    Il primo giorno la radiologia era già operativa grazie anche al mio aiutante malgascio Rasà che ha delle qualità di tuttofare fantastiche.
    La mattina di ogni giorno andavo in ospedale per sistemare l'altro strumento radiologico (rovinato a causa dell'usura dovuta alle alte temperature del posto e al forte utilizzo) e in più insegnavo ai ragazzi volontari infermieri ad utilizzare la radiologia per effettuare gli esami richiesti. La soddisfazione di fare gli esami ai tanti malati che ogni giorno affollano l'ospedale è stata forte e mi ritengo molto soddisfatto e fortunato di aver fatto parte di questo bellissimo progetto.
    Essendo un informatico ho potuto anche approfittare delle mie conoscenze per configurare la rete locale dell'ospedale per permettere da ogni postazione ambulatoriale di vedere gli esami RX direttamente dal pc dove il medico scrive le patologie di ogni paziente.
    L'accoglienza alla Corte dei Gechi è stata fantastica. La signora Eleonora è una bravissima persona e come tutti gli altri volontari molto simpatici e competenti. Una squadra fortissima di bellissime persone! Un'esperienza che non dimenticherò mai e che mi porto nel cuore gelosamente.
    Il cibo cucinato da Josephin era fantastico! Ottime abbuffate ogni pranzo e cena.
    Quasi tutti i pomeriggi riuscivo a fare il turista scoprendo callette e spiagge paradisiache. Ho visitato il Laguna Blu che sarà sicuramente mia futura meta!


    Il viaggio in macchina, sia all'andata che al ritorno, è stato una vera e propria avventura che però vale tutta la fatica richiesta! Gli autisti locali sono straordinari sia la coppia Bebera/Dulla da e per Tulear sia il bravissimo Mino che mi ha scorrazzato per due giorni nella capitale Tanà. Mi ha aiutato a passare due giorni altrimenti molto difficili in maniera spensierata; sono riuscito persino a visitare il Lemur's Park a venti minuti di macchina dalla città.

    Ho allegato foto della radiologia e della sala comandi dopo il mio "riassesto" e altre che pensavo potessero interessarvi. Ho messo anche Ugo, magari volete vedere se è cresciuto! :-)

    Ciao e grazie a tutti!
    Mi avete reso una persona migliore.

    Spero di partecipare o poter aiutare ancora!

    Veloma!

    Andrea Nuvoloni
    Biotron s.p.a.

  • #83

    Daniele Ruiba (martedì, 07 marzo 2017)

    Alla mia quinta missione , credevo che nulla potesse più sorprendermi, invece mi sbagliavo,ogni attimo se pur già vissuto ti rapisce e ti trasporta in un mondo a te lontano e inusuale ma nello stesso tempo presente dentro di te, ben dentro il tuo essere fino a modificare la tua anima. Il volo, lungo, tedioso, e noioso, poi l'arrivo ad Antananarivo , capitale del Madagascar, gesti conosciuti attese già vissute ma sempre diverse per i colori,gli odori e gli sguardi che come calamite ti attraggono in una danza calda e avvincente di impressioni, la corsa frenetica, come se fosse una gara, dei portabagagli abusivi che ti "rapiscono" la valigia per un misero compenso,la contrattazione per il taxi che ti chiedi come le lamiere riescano ancora a stare insieme e addirittura funzionare. Attraversi la città caotica tanto diversa della tua idea di città e arrivi ad un albergo a ore,in una cameretta che ti ospiterà per una notte e subito senti questo alone di Africa che ti avvolge e ti prende e a cui, tu, volutamente appartieni già . Secondo volo a Toliara e arrivo all'hotel Longo, anche questa volta sono in questa camera,no! non è cambiata è come tornare a casa; la mattina arriva presto e la pista ti attende con le sue incognite essa ti rapisce,ti stronca, ti fa volare attraverso paesaggi per te inusuali,attraversi villaggi,capanne,sabbia,mare,sole,foreste,sabbia e tutto scorre traballando e sempre la prima volta.Ecco l'ospedale., la corte dei Gechi,gli abbracci, i saluti. le valigie nella camera a te destinata,le ho girate tutte e ognuna è sempre casa, la grande sala,la cucina con l'inmancabile Josephine,tutto sa di dolce emozione ,di porto sicuro dopo la tempesta; poi prendi contatto con la realtà che ti circonda,che ora ti apparterà a cui tu apparterrai diventandone parte integrante e viva e dovrai dare te stesso dimenticando quasi ch esisti e presto ti accorgerai che sarà più quello che ricevi di quello che darai perchè non esiste cosa più bella e appagante di donare agli altri senza che il DIO danaro guidi le tue azioni. Come compenso però avrai sorrisi di una dolcezza struggente e sguardi umidi e caldi,avrai la sensazione del velluto toccando la pelle,ti stupirai di quelle mani unite a coppa per ricevere la medicina,avrai poche parole di ringraziamento ma le parole non servono quando gli occhi parlano e dentro di te sarai felice di lenire,anche solo per pochi giorni,il dolore del tuo simile,del tuo fratello che non ha le tue possibilità, che non ha la tua ricchezza, che non sa neppure perchè sei lì, avrai paura di sbagliare ma non temere ti guiderà la gioia di fare, di dare e di aiutare.Nasceranno amicizie e simpatie così forti che se saprai coltivarle dureranno tutta la vita perchè in quel luogo esiste una magia che si chiama "uguaglianza"perchè tutti si è parte del tutto.E' difficile parlare delle emozioni,ognuno ha le sue ma credo di non sbagliare se dico che quello che vivi all'ospedale Vezo non hanno confine e sono profonde,così profonde da trapassarti il cuore e dopo..e dpo amerai l'Africa e vorrai solo tornare.
    Daniele dentista per caso

  • #82

    Althea (venerdì, 24 febbraio 2017 11:35)

    Prima di raccontare la mia esperienza con Amici di Ampasilava vorrei raccontare chi sono. Mi chiamo Althea e mi sono laureata in Scienze Motorie. Questa facoltà purtroppo non mi ha mai dato troppa soddisfazione e mi sono sempre sentita incompleta, volevo fare di più. Essere di più. Una sera mi si è avvicinato Vito proponendomi di dare un’occhiata al sito e dopo averlo fatto sono andata al primo incontro di volontari per saperne di più. Ho subito capito che dovevo partire, che dovevo andare laggiù a scoprire cosa fare nella vita e perché non farlo aiutando chi ne ha davvero bisogno?

    Sono partita da Bologna il 12 novembre con una valigia carica di speranze, paura e gioia. E anche piena di farmaci. Il primo mese ho svolto un Master di Medicina d’Urgenza-emergenza su cui non mi dilungherò più di tanto; questo mese è stata una parentesi che ci ha introdotti ai successivi due mesi di volontariato che avremmo svolto presso l’ospedale Vezo.
    Il 12 dicembre sono entrata alla Corte dei Gechi. Da lì è cominciata la vera esperienza, ho cominciato a vivere alla malgascia, ho cominciato a vivere davvero l’ospedale. Ti prende nell’animo.
    È davvero difficile descrivere a parole quello che ho visto, quello che ho vissuto, quello per cui ho pianto e quello per cui ho riso. Non mi sarei mai immaginata di salvare delle vite, di perdere delle vite, di entrare in sala operatoria e creare con i mie AMICI (non semplici colleghi) una equipe chirurgica.
    Ci sarebbero mille episodi che potrei raccontare per cercare di spiegare, ne sceglierò uno a caso. Un episodio felice: una signora di circa 50 anni è venuta in ospedale per subire una rimozione di cisti ovarica, una cisti enorme in un corpicino piccolo piccolo. L’operazione è andata bene. In quel periodo io ero in degenza e quel che mi premeva era riuscire a far star bene quelle persone non solo farmacologicamente. Ogni sera e ogni giorno ballavo per loro, sorridevo e facevo ascoltare la musica. Questa signora ha cominciato a ballare con me e al momento della dimissione mi ha cercata per l’ospedale e appena mi ha trovata mi ha abbracciata forte. Questa forma di ringraziamento mi ha sorpreso e toccato molto perché queste persone sono semplici e bastano cose semplici per farle stare un po’ meglio.
    Per non parlare del posto, è magico. Tramonti, stelle, mare, villaggio, il sorriso delle persone. Tutto ti entra dentro, tutto rimane impresso nella mente. Non basterebbero mille fotografie a mostrare la meraviglia di tutto questo. In Madagascar ti senti in una bolla, una bolla felice. FELICE.
    Una sera dell’ultima settimana siamo andati sull’acquedotto, posto in cima a una collina da cui si vede tutta Andavadoaka e tutte le sue spiagge (è un posto stupendo su cui andare a godersi il tramonto), a cantare e suonare la chitarra. Sotto quel cielo stellato, poi, siamo andati a fare il bagno nella magica “pozza”, piccola spiaggia praticamente di fronte all’ospedale. Con il suono dolce della chitarra, su note inglesi, mi sono stesa sotto le stelle e non pensavo a niente. La mente vuota. Con me solo un senso di appartenenza a quel posto che per tre mesi ho sentito come casa. Le lacrime che sono cominciate a scendere erano di felicità e dolore.
    Posso dire che è stato il viaggio che mi ha cambiato la vita. Sicuramente tornerò. In Madagascar, ad Andavadoaka, all’Ospedale Vezo, alla Corte dei Gechi ho lasciato un pezzo del mio cuore.

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